Se nell’infanzia la mia famiglia continuava a insistere affinché il cibo colmasse ogni c’è genere di vuoto, nell’adolescenza la mia ribellione divenne il rifiuto. Giornate intere senza toccare cibo, o mangiando solo una mela, l’ossessiva attenzione al peso indicato sulla bilancia, fino al crollo con abbuffate di qualunque cosa trovavo in giro. Quello che odiavo erano gli odori emanati dei cibi cotti da mia madre, tentavo di sfuggirgli ma non potevo mancare di sedere a tavola quando c’era mio padre ed era difficile rifiutare il cibo. La questione importante ovviamente non era il cibo ma il fatto di non riuscire ad avere il controllo sulle imposizioni dominanti e violente di mio padre e sui ricatti emotivi di mia madre. Tenere sotto controllo il peso mi dava l’illusione di poter controllare anche il resto. Non era così. In ogni caso ad ogni mia abbuffata seguiva una pratica compensatoria e mi consumavo caviglie e ginocchia saltellando e scalando qualunque cosa per consumare calorie. Non c’era gioia né serenità in questo. Non lo facevo per il piacere di muovermi ma solo perché il mio corpo non era come lo volevo. Pesavo il giusto ma allo specchio mi vedevo sempre grassa e pare che questo sia frequente in chi soffra di disturbi alimentari. Più mi allenavo e più i muscoli crescevano e questo non andava bene perché avrei voluto scomparire, essere longilinea e quindi priva di muscoli. Volevo che si vedessero le ossa e quando riuscivo a toccarle mi sentivo bene. Tutto ciò non era mai ovviamente privo di conseguenze.
L’alimentazione sbilanciata mi sottraeva vitamine, un apporto calorico necessario, mi faceva sembrare anemica e per un certo periodo lo fui. Ero debole, non riuscivo a pensare bene, non funzionavo come avrei voluto. Qualche volta sudavo freddo e poi i capogiri segnalavano uno svenimento. Allora cominciai a mangiare in modo più regolare, concedendomi qualcosa di “cattivo” qualche volta, da smaltire con tanto esercizio fisico, lunghe passeggiate, corse a perdifiato, chilometri attraversati con una bicicletta sgangherata, e tanta solitudine sociale. Non era un argomento che si potesse condividere, non c’erano ancora i presupposti culturali, lo stigma sessista era preminente, le ragazze disprezzavano altre ragazze, qualcuna mi diceva che avevo le gambe grosse e per quanto mi esercitassi restavano comunque robuste. Non potevo cambiare aspetto. Provavo a vomitare ma per mia fortuna non sono mai riuscita. Non era una cosa che mi piaceva fare. Sapevo di altre che si vantavano di poter vomitare quanto volevano. Io non riuscivo. Perciò consumavo sudando, esercitandomi, ballando, scalando scalini, camminando, correndo senza fermarmi mai. Non mi piacevo, come non si piacciono tante adolescenti, ma quel che mi infastidiva era il riflesso di me nello sguardo altrui. In Sicilia nessuno ti chiede il permesso per dirti che sei bella o brutta. Te lo dicono, perché respiri e cammini per strada. Ogni commento era un’offesa. Un punto di vista estetico che mi faceva sentire inadeguata. Non credevo alla lascivia di chi mi chiamava bella né a chi mi diceva che ero brutta, ma mi sentivo visibile e volevo sparire. Scrivevo già allora e tentavo di dare un nome a quello che conosco adesso. In quegli anni i disturbi alimentari non erano neppure citati dai medici.
Erano capricci. Dovevo sentirmi in colpa perché mio padre era un bambino che faceva la fame dopo la guerra e perché altrove c’erano bambini che non avevano cibo. Per tentare di sparire mi travestivo. Usavo la giubba di mio fratello, la cravatta di mio padre, le camicione lunghe maschili. Non volevo che si vedessero le mie forme che poi invece avrei esibito da adulta, più consapevole, comunque ancora piena di complessi. Volevo coprire il mio dannato culo. Ho continuato a mettere roba ampia che mi faceva sembrare più grassa per tanto tempo e non riuscivo ad accettarmi per quel che ero. Eppure ero oggetto di molestie e violenze. Nella mia mente educata in senso maschilista pensavo che solo le belle subissero violenze. Ero stupida, non avevo coscienza di genere, ero solo una ragazza inconsapevole e priva di risorse che tentai di procurarmi quando cominciai a leggere di femminismo. Ma l’adolescenza per me fu traumatica, mio padre mi picchiava, mia madre mi rimproverava, mia sorella mi colpevolizzava perché io ero sana e lei malata. Nella tarda adolescenza rimasi incinta e mi costrinsero a fare un matrimonio riparatore con un uomo violento. Ingrassare fu disastroso e il mio corpo non era pronto per una gravidanza. L’anemia incombeva, avevo carenza di calcio, di vitamine, di tutto e quella gravidanza mi consumò. Divenni più miope, più anemica, più cellulitica e grassa. Dopo ricominciai a dimagrire ma dovetti fare molto per perdere quei chili e raggiunsi un peso persino minore a quello dell’adolescenza. Le mie ossa visibili, grosse, come quelle di mia madre, i muscoli flosci, salvo che nelle gambe, la cellulite non se ne andava. Io non mi piacevo, non mi volevo bene, mi picchiavano, non mi sentivo neppure adeguata a fare la madre, mi sentivo una merda. Volevo sparire. Eppure continuo a ricordare che in famiglia il cibo era un premio. La sua assenza diventava il mio controllo. Effimero, inesistente, quando non controllavo assolutamente nulla e non avevo scelta. Sostanzialmente la mia fu un’adolescenza piena di effetti disastrosi e pensieri orribili. Il resto alla prossima.
Eretica Antonella