Questa è la storia di una ragazza che chiameremo Martina. È un nome falso naturalmente ma la sua storia è vera e io proverò a raccontarla restando fedele a tutto ciò che mi ha detto. Durante una tra le tante serate estive Martina indossa un abito leggero, ai piedi dei sandali con piccole fibbie alle caviglie, sul polpaccio si intravede un tatuaggio che scende dalla coscia in basso, sorride, risponde al citofono e scende per incontrare i suoi amici. Ragazzi e ragazze della stessa età hanno organizzato una gita in una casa in riva al mare, ci sarà della musica e mangeranno pizza che potranno bere vino servito dal padrone di casa. Lei non regge bene l’alcool ma non un brindisi, così beve qualche bicchiere e poi poggia la testa su un sofà, senza rendersi conto che le ragazze nel frattempo sono andate via. Uno dei ragazzi aveva detto che avrebbe atteso il suo risveglio e poi l’avrebbe riaccompagnata a casa. Quello che succede dopo è confuso. Martina sente che qualcuno la trasporta e si ritrova su un letto matrimoniale e poi sente delle voci e ne distingue qualcuna. Tenta di opporsi a quello che sta succedendo e dice di voler andare a casa ma tutti ridono e nessuno l’ascolta. Viene stuprata per l’intera notte da quattro amici che la accompagneranno all’alba mentre lei è ancora intontita e non si rende conto che le hanno rimesso l’abito al rovescio e per rimettere le scarpe hanno rotto le fibbie. Quando torna a casa va subito in bagno a vomitare e si rende conto che le sue mutande sono strappate e ci sono tracce di sangue un po’ dappertutto. Pensa che le siano arrivate le mestruazioni e indossa un assorbente e uno slip pulito, poi va a letto e si addormenta.
Quando Martina si sveglia sente la vagina dolorante, un dolore o forse più un bruciore all’ano, ricorda delle mutande strappate e bar recuperarle tra i panni sporchi. Tenta di capire come sia successo e ha solo l’impressione che le sia accaduto qualcosa di brutto ma non ricorda niente. Per prudenza decido di non chiamare le ragazze i ragazzi con cui era uscita ma va in cucina a farsi un caffè e comincia a realizzare che la confusione deriva dall’ubriachezza e dall’aver vissuto un trauma che coinvolgeva i suoi amici. Da principio avverte la negazione, pensa che non sia possibile che le abbiano fatto qualcosa di male, in preda allo shock non riesce ad elaborare l’accaduto, risente di una condizione parzialmente depressiva, sente di aver subito una violenza ma non riesce a mettere ordine nella sequenza degli eventi. Questo dato è fondamentale perché spesso si dice che una donna che ha vissuto una violenza dovrebbe riuscire a mettere a fuoco immediatamente tutto quanto. In realtà in una situazione di shock e in special modo se la vicenda coinvolge persone di cui ti fidi e se hai bevuto non riesci perfettamente a ricordare la successione degli eventi. C’è la paura di ricordare qualcosa che può ferirti e c’è anche l’idea di poter essere responsabile di quello che è accaduto. Il cervello agisce con una parziale rimozione quando il ricordo può provocarti un trauma terribile da superare. Il cervello ti protegge e quei ricordi cominciano a sbloccarsi solo quando lo stato d’ansia in qualche modo si placa e sei pronta ad accettare di guardare la realtà dei fatti così come è avvenuta. A quel punto cominci a unire i pezzi, come in un puzzle. Martina ricorda di essere stata trasportata da più mani sul letto matrimoniale, ricorda i volti di due dei quattro amici che l’hanno spogliata e poi l’hanno penetrata a turno, giocando con lei come se fosse un oggetto e inserendo nel suo ano qualcosa di metallico, senza insistere molto perché immediatamente videro il sangue. Ridevano ancora quando la rivestivano e la salutarono come se nulla fosse successo quando arrivarono sotto la porta della sua casa. In quel momento Martina riuscì a dare un nome al trauma che aveva subito: si trattava di stupro di gruppo. Le prime sensazioni che lei ricorda furono di abbandono e lutto, lei si sentiva abbandonata e tradita da quegli amici e si sentiva molto sola perché avrebbe avuto bisogno della conferma di quelle persone per riuscire a ricostruire per intero la serata.
Il giorno dopo chiamo alcune delle sue amiche per raccontare quel che ricordava. Le chiesero se fosse sicura e che sembrava strano fosse accaduto proprio a lei dato che quei ragazzi non avevano mai mostrato interesse nei suoi confronti. Una le disse di non parlarne con la famiglia a meno che non fosse realmente certa di come fossero andate le cose e la invitò a riflettere bene perché pensava fosse possibile che Martina avesse qualche responsabilità e fosse causa di quello che era successo. Le amiche lo dissero agli amici che iniziarono a tempestare Martina di messaggi in cui lei dicevano che ricordava male e che era stata lei a provocarli ed era stato un gioco che sembrava piacerle. Le dissero anche di non diffamatorie nei loro confronti senza avere qualche prova tangibile perché altrimenti sarebbe rimasta sola e l’avrebbero denunciata. A quel punto Martina seppe di non poter contare né sulle amiche né sugli amici e non sapeva a chi rivolgersi fintanto che non chiamo un centro antiviolenza dove un’operatrice le suggerì di denunciare perché altrimenti non avrebbero potuto aiutarla. Le spiegarono che dato che non si era fatta a repertare subito dopo la violenza sarebbe stata la sua parola contro quella dei ragazzi che intendeva accusare di stupro di gruppo. Martina andò presso il centro antiviolenza per incontrare un’operatrice e poi un avvocato che le descriveva più o meno come sarebbe andata la faccenda. Lei avrebbe presentato la denuncia, avrebbero indagato, i quattro sarebbero stati accusati, ci sarebbe stato un processo durante il quale la vita di Martina sarebbe stata sottoposta al microscopio dei difensori degli accusati.
Martina sarebbe diventata una vittima rivittimizzata, avrebbe istigato il suo senso di colpa e la sua vergogna, descrivendo eventuali abitudini, vizi, look, sessualità. Non sarebbe mai rimasta da sola ma doveva farsi forza perché sarebbe stato prevedibile che lei vivesse una perdita di autostima e sicurezza. Lei chiese se la denuncia sarebbe servita a ricevere conferma di quello che le era successo da parte delle istituzioni. A prescindere da quel che avrebbero deciso i giudici lei sapeva cosa le era successo e non intendeva sottoporsi ad un processo che l’avrebbe fatta sentire colpevole ascolta senza riconoscere il suo stato di vittima. Decise di non voler denunciare ma di farsi seguire da uno psicologo per tentare di elaborare il trauma e cercare di cancellare in maniera totale il senso di colpa e la vergogna che la opprimevano. Voleva tornare ad essere la ragazza spigliata e gioiosa che era un tempo, non voleva preoccuparsi per gli abiti indossati o per le persone da frequentare, non voleva neanche immaginare che tutti, nelle medesime circostanze, avrebbero agito allo stesso modo nei confronti di una ragazza ubriaca. Le era già successo, quando stava all’estero, e i ragazzi la aiutarono a tornare a casa senza pensare mai di poter approfittare della sua fragilità. Era consapevole del fatto che sarebbe stato difficile convivere con quello che era accaduto e deciso semplicemente li partecipare alle manifestazioni contro la violenza di genere sapendo che a prescindere da una condanna quei ragazzi erano degli stupratori.
Martina non chiede che sia seguito il suo esempio né vuole scoraggiare le altre dal fare una denuncia, ma pretende che il suo punto di vista sia reso visibile perché se qualcun’altra ha vissuto la stessa esperienza vuole che sappia che non è sola e che ha una scelta. Può seguire l’iter istituzionale o pensare a sanare le ferite, può fare entrambe le cose o addirittura individuare un altro percorso adatto a lei, perché nessuna risposta è generalizzabile e nessuna soluzione può essere imposta alle vittime di violenza di genere. Martina ha raccontato alla sua rete di conoscenze quello che è successo e poi lo ha detto anche alla sua famiglia e dunque sanno che quei ragazzi sono degli stupratori e che lei è una vittima. Non ha cambiato città e non si vergogna di attraversare le stesse strade in cui potrebbe incontrare i suoi carnefici. Le è capitato di incontrare le ragazze che subito sono fuggite vergognandosi. Perciò la considera una vittoria e pensa che decidere di abitare e attraversare quelle strade, per riappropriarsi dello spazio che era suo, significa molto, Vuol dire non cedere mai il passo di fronte ai carnefici. Non è lei che deve nascondersi, non è lei che deve subire un processo. Non è lei la colpevole.
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