Scrittura per la libertà. Continua da QUI. Se vi piace una donazione mi fa sempre comodo. Ed ecco che inizia. Ogni riferimento a cose, città, fatti e persone è puramente casuale. Buona lettura!
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Ci ritrovammo in piedi, a Piazza Marina, tra Corso Vittorio Emanuele e Porta Felice, a Palermo. Non c’erano carrozze, quindi potevamo escludere di essere nel passato. Non c’erano neppure automobili né la normale ressa attorno al negozio che vendeva pane con la milza. Tutto era chiuso. Forse era troppo presto per fare il conto con un possibile futuro palermitano, ma era il mio ambiente. Finalmente ero nel mio elemento naturale. Un luogo di cui conoscevo quasi tutto, incluse le follie sparse un tanto al grammo, per ogni singolo abitante. Noi non avremmo fatto eccezione. Saremmo state un po’ com’erano tutti. Bastava solo adeguarsi e tentare di non apparire troppo strane. Le altre, fiorentine, assieme a Cecco, guardavano i dintorni con meraviglia. Non sapevano nulla della mia città natìa. Se Firenze era stata costretta a tornare agli orti e alla pesca, Palermo sarebbe stata in preda alla siccità e agli acquazzoni di ottobre. Non sapevo come potevamo cavarcela. Quello che riuscivo a vedere erano strade vuote e suggerii di avviarci per percorrere il centro storico. Salendo per la Vuccirìa, poi Ballarò, poi a destra per andare verso il teatro dell’Opera e continuando per Piazza Politeama.
Deviammo verso il quartiere del porto, a Borgo Vecchio, passando per il mercato ancora chiuso e tentando di raggiungere il mare. Restammo fermi vicino ad un chiosco che da quel che ricordavo vendeva angurie a fette. Era difficile stabilire in che modo il futuro di Palermo si fosse sviluppato. Sembrava una città abbandonata, il sole alto, era mattina o l’ora della pennichella. Non riuscivo a capire. Consigliai di tornare indietro, vicino al Teatro Massimo. Forse si sarebbero fatti vivi i turisti e i carretti siciliani in bella mostra. Potevamo incontrare il tizio che vendeva la grattatella, ghiaccio e limone. Pensare alle cose buone di Palermo mi faceva veniva l’acquolina in bocca. Poi un tale si avvicinò e osservando le nostre divise da lavoro fiorentino condensò il suo parere in un “minchia” di benvenuto. Si chiamava Totò e disse che per dei turisti come noi avrebbe fatto volentieri da guida. Risposi che non eravamo turisti e che ero palermitana anch’io. Voleva spillarci dei quattrini ma quando udì il mio accento si tirò indietro e provò a consigliarci.
Chiesi dove fossero tutti e lui disse che Palermo non era più come una volta. In tanti si erano imbarcati verso il continente e quelli che rimasero stavano in casa nelle ore di punta, col sole così alto e caldo, non si riusciva a respirare. Cercavano di trovare refrigerio soprattutto nelle case antiche, quelle del centro storico, con le pareti spesse un metro, perché i nuovi edifici si scioglievano come neve e quando l’acciaio dentro il cemento si assottigliava si sentivano scricchiolii e alla lunga crollavano edifici, intere balconate. Mi invitò a guardare meglio e in effetti vidi il profilo di palazzi con enormi crepe, come vi fosse stato un grande terremoto. La gente non confidava nella sicurezza dei palazzi e migrò in fretta e furia per luoghi in cui era possibile sopravvivere.
Chiesi dove si trovassero e come sopravvivessero. Totò disse che salvo pochi affezionati, come lui, gli altri erano andati in paesi sulla costa, migrati verso sud o in collina, o ancor più in alto verso le montagne. Si accampavano dove c’erano corsi d’acqua e dove ancora si trovata qualche pesce e della selvaggina. Le coltivazioni erano abbandonate, la siccità aveva travolto tutto e quando arrivava la sabbia del deserto con il vento nessuno sapeva come ripararsi. Avevano imparato a sopravvivere fingendo di essere continentali ma si scoprivano impreparati a vivere da africani. Perché la Sicilia in fondo era Africa del Nord, sebbene si parlasse un’altra lingua per le colonizzazioni europee. Se fossimo rimasti arabi, com’era già all’inizio, avremmo potuto riscoprire segreti di sopravvivenza che ora non erano più noti. Perciò nessuna grattatella, niente carretti siciliani per turisti, ma solo desolazione e qualche folle rimasto all’aperto in ore in cui il sole diventava fonte di pericolo. Totò ci accompagnò nel posto in cui viveva un po’ di gente, tra Ballarò e la Vucciria, sebbene fossimo passati già da lì senza vedere nessuno. Mi disse che non si mostravano all’esterno, ma che potevano ospitarci se ci rendevamo utili. Le altre mi guardavano in cerca di risposte. Strinsi le spalle e bussai ad una porta.
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