Le Pazze, Scrittura

Le Pazze – secondo capitolo

Scrittura per la libertà. Continua da QUI. Se vi piace una donazione mi fa sempre comodo. Ed ecco che inizia. Ogni riferimento a cose, città, fatti e persone è puramente casuale. Buona lettura!


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Dopo esserci saziate di pesce decidemmo di continuare il nostro giro di esplorazione della città. Ci dirigemmo verso Ponte Vecchio dove stranamente non c’erano gioiellieri ma artigiani che lavoravano per strada, con laboratori aperti di falegnameria e ferramenta. Sembrava quasi una città del passato o forse una Firenze non più rivolta semplicemente ai turisti ma alle esigenze dei propri abitanti. Le piccole case sopra le botteghe degli artigiani erano arredate di panni stesi e c’erano donne che cantavano mentre svolgevano lavori casalinghi. Per poco non fumo colpite da una secchiata d’acqua gelata che veniva da un donnone enorme, alle prese con la pulizia delle imposte. Tutto il centro sembrava fiorire di attività artigiane, vicino agli Uffizi i pittori non raggranellavano qualche moneta facendo ritratti in pochi secondi. Erano intenti invece a realizzare opere di pregio, paesaggi, visioni d’insieme, scene di vita quotidiana, un pittore dipingeva la posa di un altro pittore posizionato dinanzi a lui. Lungo la piazza c’era anche uno spazio per la scultura e dove normalmente si vedevano persone in posa statica, raffiguranti Michelangelo o Dante Alighieri, si assisteva a performance costumi d’epoca.

Proseguimmo verso la cattedrale alla scoperta della città nuova e non c’erano più tavoli fuori dai ristoranti ma molte persone che giocavano e si inseguivano rincorrendo una palla di stoffa. Andammo verso la stazione ferroviaria è vicino all’area della fortezza lo spazio verde era diviso in zone coltivate, piccoli orti curati da donne e uomini intenti a far crescere verdure, pomodori, un ragazzo si occupava della marijuana. Lella disse che se era arrivato il tempo della legalizzazione della cannabis tutto poteva accadere. Palazzo della Signoria non era protetto da guardie, in giro non c’erano poliziotti, e all’uscita c’erano solo persone di nobile aspetto, con abiti modesti, che chiedevano ai passanti di cooperare per la rinascita della città. Un tale ci consegnò un volantino che sembrava stampato a mano, in cui era scritto che l’economia della città era in ripresa e che presto sarebbero tornati anche ai turisti. Lella appallottolò il volantino, lo gettò a terra e vi sputò sopra. L’uomo spaventato si allontanò. La Firenze che stavamo imparando a conoscere era molto più bella di quella che ricordavamo. Incontravamo persone sorridenti, volantinatore a parte che sperava in un ritorno della impersonale massa di turisti. Non ci venne in mente di chiedere in che anno fossimo né cosa fosse successo di particolare, ci limitavamo a rallegrarci di quello che vedevamo e ci sentivamo a nostro agio in una città che non ci avrebbe mai miserabilmente imprigionate o etichettate come pazze.

Dovevamo risolvere il problema dell’alloggio ma non ci sembrò urgente e tanto meno inopportuno pensarci a dormire a cielo aperto, forse lungo l’Arno, vicino ai pescatori, forse chiedendo di lavorare come apprendiste presso un artigiano. Avremmo trovato una soluzione. Nel frattempo Lella ci suggerì di familiarizzare con il coltivatore di marijuana. Cecco era un ragazzo di bell’aspetto, con una piccola barbetta bionda e capelli raccolti in un codino. Vestiva come un uomo d’altri tempi, un pantalone di fustagno e un gilet sopra una camicia di pesante cotone. Indossava stivali scuri che trattenevano i pantaloni ed era curvo mentre potava le sue piante ed ebbe un sussulto quando vide Flavia, bruna e con gli occhi verdi, come somigliasse ad un vecchio amore. Ci avvisò di tenerci a distanza dal campo per non calpestare la semina e disse che le piante medicinali sarebbero servite a curare molte persone. Lella borbottò qualcosa sul fatto che lei aveva sempre pensato che prima o poi una canna avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Michela ravvisò un’aura potente attorno al fanciullo e gli predisse un futuro radioso. Cecco l’ascoltò senza attenzione, concentrato com’era a scambiare sguardi d’amore con Flavia.

Valentina, solitamente taciturna, decise che una era sistemata. Isabella gli chiese dove potevamo alloggiare, lui, senza chiedere nulla sul nostro abbigliamento e i nostri modi stravaganti, disse che c’era una locanda in cui accoglievano persone che avevano perso la casa nell’ultimo straripamento del fiume. Tappai la bocca a Eleonora che chiedeva “Quale straripamento?” e dissi che ovviamente era stato così anche per noi. Avevamo perso tutto e non sapevamo dove andare. Il giovane disse, tenendo gli occhi fissi su Flavia, che se ci accontentavamo di dormire in una sola stanza potevamo andare da lui, ci avrebbe ospitate volentieri. Indegne del suo stato di ipnosi acconsentimmo e ci indicò la strada. Viveva in Piazza Santa Croce, un’eredità dei suoi genitori. Diceva che usavano la casa per affittarla ai turisti che non sono più venuti, perciò la attrezzò per farne la sua abitazione. La corte interna del palazzo era ricca di voci e panni stesi. Le scale in marmo conducevano ad un appartamento al secondo piano, con vista sulla piazza. Sembrava un sogno, poter guardare il cielo tanto da vicino, dopo quegli anni vissuti vedendo l’azzurro solo attraverso le grate di metallo scuro. Dio ci vuol bene, affermò Lella. Poi ci avvisò del fatto che stava constatando sintomi di lieve tachicardia. 

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