Ero da sola quando lei nacque e continuai a rimanere sola in seguito. Dormiva poco e io con lei e mangiava tutto quello che potevo darle. I seni aridi smisero in fretta il latte e lei rimase priva di nutrimento. Dovetti sostituirlo con il latte artificiale ma lo sputava e piangeva sempre. Non riuscivo più a dormire in posizione verticale. Stavo seduta, mentre lui dormiva sonni beati, mi preoccupavo che lei respirasse. Mi avevano detto che poteva smettere ad un certo punto e non avrei voluto vederla morire. Non così. Sognavo ogni notte un incubo diverso. Di lei che finiva sotto un’auto o si lanciava dalla finestra o finiva in una buca profonda e ancora neppure camminava. Prima che lei potesse gattonare sistemai la casa con degli appigli di sicurezza, reticelle per fermarla, cuscini per evitare che cadesse su superficie dura, adesivo sulle prese elettriche. Eppure non sembrava mai abbastanza. Continuava a piangere e mi pentii di aver pianto tanto mentre si muoveva dentro di me. Avrei dovuto tacere, smetterla con le angosce, con l’ansia per quel che mi sarebbe potuto capitare, ed ero così sola che un giorno di ritorno dal mercato misi a scaldare il latte sul fornello, le porte chiuse, il latte venne fuori e spense il fuoco. Il gas si diffuse nella stanza.
Bussò una vicina e poi dissero che avevo tentato di suicidarmi ma ero solo così stanca e mi riusciva a malapena di svegliarmi per darle da mangiare e poi restavo in trance con quel biberon in mano e lei che succhiava. Mi risvegliava il suo pianto perché aveva perso il ciuccio o aveva sbattuto su qualcosa. Una volta ingoiò un bottone trovato non so dove e la misi a testa in giù, scuotendo forte, fintanto che il bottone venne fuori e lei ricominciò a respirare. Quando lui tornò chiese se era andato tutto bene e dissi di sì. Tutto andava perfettamente. Che importava della mia paura di vederla morire davanti a me, di una responsabilità troppo grande per la mia età, del fatto che lui voleva solo scoparmi al suo ritorno e non faceva altro che strepitare se la cena non era ancora pronta. Portava i soldi in casa, padrone e padre eterno, poteva fare di me tutto ciò che voleva. Un giorno lei ebbe bisogno di maggiori cure, il raffreddore diventò bronchite e l’ospedale poi mi disse che dagli esami risultava una sorta di malattia.
Non era mia la colpa, il sangue era quello di suo padre e lui se la prese con me come se io avessi mischiato intrugli magici per farla diventare come lui. E’ la genetica, gli dissi, e lui che mi aveva picchiato abbastanza perché pensava che la figlia non fosse sua sbuffò e disse di essere stufo. Lui era stufo. Io invece non ce la facevo più. Rimasi un mese in ospedale ad assistere la bimba e lui nel frattempo trovò un altro buco da scopare. Al mio ritorno disse che si sentiva infelice e che pensava di staccare. Staccare cosa, dissi io. Staccare con te. Come una presa di corrente lui mi staccò la spina e mi lasciò da sola in una casa buia e con pochi mobili, gli unici che avevamo potuto procurarci comprando tutto di seconda mano. Lui prese i soldi dell’affitto e se ne andò lasciandomi più povera di prima e il mio corpo sembrava non dimenticare il tocco che mi destinava e mi toccavo mentre cullavo la bambina. Pensavo fosse una cosa sporca, ero senza morale, una disgraziata. Non mi sarebbe importato se avessi avuto di che campare ma non lavoravo e dunque bussai ai suoi parenti e raccolsi patate e latte, qualcosa da mangiare, un po’ di soldi e poi dai miei presi qualche altro abito invernale perché arrivava il freddo e io stavo ancora con gli abiti leggeri e larghi di quando ero incinta.
Mia madre mi portò una pappa per la bimba ma non chiese mai se avessi bisogno di qualcosa. Io non cero, non esistevo. Mi sentivo invisibile e c’era quella bimba che guardava aspettandosi da me il mondo intero. Un mondo che non potevo darle. Quando si resta sole – tu e una figlia – si crea un mondo di comunicazioni che solo voi potete concepire e comprendere. Io le parlavo come se lei fosse adulta e mi sfogavo per tutte le mie pene. Devo averle detto molte volte chi me l’ha fatto fare a restare incinta di un coglione come tuo padre. Se l’ha sentito, se l’ha capito, deve essere ancora impresso nella sua memoria. Poi mi arrabbiavo, per me stessa, per tutto quello che non potevo fare, perché non c’era nessuno a cui lasciarla, la solitudine mi dannava l’anima e non sapevo come fare. Potevo solo ricevere visite e ogni tanto si faceva vivo un amico o qualcuno che voleva scoparmi gratis, allora mettevo a dormire la bambina e se piangeva la sbattevo forte in quella culla dove doveva stare. Poi tornavo all’ospite, sfilavo le mutande lo cavalcavo senza pentirmi di niente e quando venivo mi sentivo ancora viva. Che ne poteva sapere lei di quello che mi rendeva viva. A volte la portavo sul lettone, vicina a me, la accarezzavo per farla addormentare, poi la sgridavo perché continuava a sorridere e restare sveglia e non c’era nulla che mi commuoveva.
Eravamo sole e tutto quello che potevo darle era me stessa, così com’ero, senza trucchi né inganni. Quando iniziò a gattonare, me la ritrovavo sotto i piedi mentre lavavo i piatti o cercavo di fare il bucato, preoccupata che mi sfrattassero e che mi tagliassero corrente e acqua. La bombola del gas costava un botto e io non avevo niente e cercavo di rendermi utile con le vicine per un tozzo di pane, un paio di carciofi, qualche merendina, un biscotto da portare alla bambina. Nessuno giudicava lui che se n’era andato lasciandoci in miseria. Tutti guardavano me e mi chiamavano puttana perché quel via vai di uomini che veniva a portare pesce o carne fresca per una scopata non piaceva alle donne perbene. Però con quei regali mangiavamo e con un paio di orgasmi potevo andare avanti un altro po’, senza ansia per il domani, senza dubbi su quello che sarebbe potuto succedere. Una notte sentii un forte terremoto e noi abitavamo al secondo piano. Presi la piccola e mi lanciai per le scale, scalza e quasi nuda e in strada c’era un signore che mi guardava male, poi allungai lo scialle con cui l’avevo coperta per coprire in parte anche me. Non era colpa mia se il terremoto era arrivato quando stavo già a letto e non avevo tempo per vestirmi o lei sarebbe rimasta esposta un po’ più a lungo.
Non era quello che ci si aspettava dalle madri? Venivano prima i figli, sempre prima, le madri mai. Il vicinato però si intenerì a lungo andare e cominciò a mandarmi i figli per il dopo scuola. La bimba camminava e io insegnavo ad altri come superare interrogazioni ed esami. Non guadagnavo molto ma il necessario per darle da mangiare e vestirla meglio che potevo. Di notte scucivo miei abiti vecchi, li ritagliavo e componevo tessuti che diventavano suoi abiti. Un po’ malconci ma per lo meno non andava in giro nuda. Poi smise il pannolino e cominciò a parlare e per fortuna imparava le parole che pronunciavo insegnando ad altri. Speravo che dimenticasse quello che era stato, la mia attività notturna, l’eccitazione che provavo e i gemiti per rinverdire un corpo che mi sembrava vecchio. Avevo solo vent’anni e pensavo che la mia vita fosse tutta lì. Finita, conclusa, morta. Un giorno suo padre si fece vivo e disse che stava con una brava donna e che poteva prendere la bambina e io corsi via a nasconderla, sotto panni sporchi, ordinandole di far silenzio, perché lui non la trovasse.
Non sapevo niente di avvocati e tribunali né del fatto che la morale mi aveva condannata come cattiva madre. Lui si guardò un po’ in giro e mi rimproverò perché facevo crescere sua figlia in un tugurio, quello che lui aveva affittato per noi, l’unico che potevo permettermi. Gli dissi che avrebbe dovuto darmi dei soldi perché la tenessi meglio e lui sputò per terra, mi diede della puttana, disse che sapeva cosa facevo per guadagnare soldi e che sicuramente ero più ricca di lui. Poi se ne andò. Io pensavo di aver fatto del mio meglio perché in fondo la bambina era ancora viva. Poteva essere morta se non l’avessi nutrita e curata. Invece era ancora viva grazie a me. Però per tutti ero una puttana e lei la figlia di puttana. Non c’era un nome per chiamarla, non quello che avevamo scelto, soltanto figlia di puttana e continuò a crescere senza pretendere di essere nominata.
Quando passeggiavamo le spiegavo la natura, gli alberi, il cielo, gli uccelli, il sole e la luna. Lei sorrideva, curiosa, poi la riportavo a casa, la mettevo a letto, e lì non c’era cielo, sole o luna che potessero consolarla e allora le raccontavo favole inventate, perché non ne ricordavo molte e mia madre non me ne aveva mai insegnate. Le uniche storie che ricordavo erano di terrore, non adeguate per una bambina di quell’età, perciò facevo il gioco delle ombre, proiezioni di forme sulla parete filtrando con una piccola luce scene di animali che si rincorrevano e giocavano. Sentivo le altre al mercato che dicevano che i figli erano la cosa più preziosa per una madre ma io sapevo di averla odiata qualche volta. Mi sentivo cattiva, ingiusta, colpevole. A volte volevo dimenticarmi della sua esistenza ma non potevo perché c’era e voleva sempre tutto, da me che non potevo darle niente. Quando piangeva le urlavo di sparire e smetterla di lamentarsi perché il mondo non avrebbe avuto pietà di lei e non ce l’avevo neppure io, le dicevo che era meglio se non fosse mai nata, per vedere un mondo brutto, con brutti adulti e una miserabile madre che non sapeva come sopravvivere. Un giorno la colpii, e fu la prima volta, lei aveva preso il detersivo e stava per metterlo in bocca. Poi pianse, come se le avessi tolto di mano un pasto gustoso. Ma non poteva avere sempre fame, non era giusto, perché le davo tutto ciò che potevo mentre io mangiavo quasi niente.
Si arrampicava sui cassetti, poi scivolava e batteva la testa e io urlavo aiuto ma nessuno accorreva e allora me la prendevo con lei che era così distratta e correva pericoli così terribili. Si arrampicò con una sedia fino alla finestra e io presi una bambola e la gettai giù. Quella si ruppe e io le dissi che si sarebbe rotta pure lei. Si avvicinava ai fornelli accesi e presi un accendino e le bruciai un dito. Così le insegnai a stare lontano dal fuoco. Non ero brava con le parole, tutto quello che potevo fare era mostrarle le conseguenze delle sue azioni. La reputavo una amica e una nemica, noi due da sole a ridere e scherzare e la volta dopo a urlarci contro il nostro disprezzo. Perché per lei avevo sacrificato anni di vita e lei non mi era grata neppure un po’, come se non facessi nulla di buono. Ma c’era la faccenda della mia autostima che non avevo considerato. Non me ne era rimasta un briciolo e mi aspettavo conferme da lei che non poteva darmele. La seconda volta che tornò suo padre non la nascosi sotto i panni e gli dissi di portarla via. La vidi in lacrime, porgermi le braccia, mentre lui la trascinava fuori. Mi disse la teniamo un giorno e se funziona non la porto più. Gli dissi di fare come voleva, io ero stanca e non riuscivo a struggermi per la mancanza di una bambina che non faceva che farmi preoccupare.
Volevo vivere e pensavo fosse il momento di pretendere qualcosa anche per me. Lo stesso giorno feci i bagagli, chiusi la casa e me ne andai. Immaginai che lui tornò a riportarmi la bambina ma non trovandomi non seppe cosa fare. Sperai che la tenesse con sé, in fondo era sua figlia e toccava a lui crescerla dopo che l’avevo fatto io da sola per tutto quel tempo. Mi trasferii in città e lì continuai a fare quel che sapevo fare, scopare, fottere, chiavare, chiamatelo come vi pare, a pagamento. Non avevo ambizioni ma sentivo la serenità che può darti un sonno intero, senza sveglia e bimbi che vogliono qualcosa da te. Non ero fiera di me ma non mi interessava. Vivevo alla giornata, prendevo quel che potevo prendere e davo solo ciò che sapevo dare. Non avevo completato gli studi, non avevo soldi per pagarmi libri e pensavo che leggerli fosse sopravvalutato. Poi un giorno capitai in una caffetteria con libri sulle mensole e ne aprii uno, senza riuscire a smettere di leggerlo. Parlava di magie, cose incantevoli, fantasiose e senza disperazione. Un altro mondo rispetto al mio. Così continuai ad andare e poi chiesi di poter lavorare lì e mi presero. La caffetteria era gestita da un ragazzo che avevo forse dieci anni più di me, aveva studiato, parlava bene e incantava i suoi clienti. Io lo osservavo e non capivo da quale libro poteva essere venuto fuori un tipo come lui.
Non dissi niente di me, avevo paura di essere giudicata, poi lui mi chiese quale fosse la mia storia e gliene raccontai una inventata, una ragazza come tante, venuta in città per lavorare. Senza memoria né rimpianti e lui mi disse che i miei occhi erano splendenti e lucidi di pianto, come se portassi una ferita dentro me che non sapevo come curare. Mi disse di parlargliene se lo volevo ma non lo feci, non subito almeno. Due anni dopo ero lì a raccontargli per filo e per segno quello che avevo vissuto e cosa avevo fatto per vivere e lui mi abbracciò dicendo che ero troppo giovane per portarmi dietro un peso tanto grande. Insisteva sul fatto che io cercassi la bambina perché secondo lui una madre non può vivere senza. Gli dissi che stavo bene e non volevo vederla affatto. Non mi interessava e lei mi avrebbe ricordato quel periodo buio in cui volevo solo morire o ucciderla. Quelle parole dovettero fargli effetto perché non è mai semplice spiegare ad un uomo che la magia e l’incanto della maternità stanno solo nella sua testa, nelle belle storie che gli avevano raccontato e non nella realtà. La mia realtà era piena di oscurità e di oscurità mi nutrivo. Perciò era meglio che la bambina stesse lontana da me, perché crescesse meglio, forse con qualcuno che l’avrebbe fatta sentire meno sola. Lui mi disse che non potevano essere parole dettate dalla mente. Disse non mi credeva affatto e che sicuramente provavo nostalgia. Non accettò il mio racconto, non accettò me e io capii che mi guardava con altri occhi e me ne andai, di nuovo.
Tornai dai miei per un breve periodo, solo perché mia madre mi aveva chiamato per dirmi che non stava bene. Fu una visita dolorosa, perché ogni strada, ogni angolo, mi ricordavano quello che avevo vissuto e con mia madre avevo un conto in sospeso che saldai dicendole che dato che mi aveva chiamato ero venuta ma non per farle da balia perché non l’avrei aiutata come lei non aveva fatto con me. Mi disse che la bambina frequentava una scuola elementare da quelle parti e anche se le dissi che non volevo saperne nulla andai a cercarla, con gli occhi, dappertutto, tra tante bambine sedute ai propri banchi e da lontano, dietro il vetro di una finestra pieno di stampe colorate, la vidi. Era cresciuta ed era ancora viva. Potevano dirle quello che volevano, che io l’avevo abbandonata, ma io sapevo che se era sopravvissuta ad un periodo di grande miseria lo doveva solo a me e ai tanti cazzi in culo che avevo sentito penetrarmi mentre facevo il conto di quel che un cazzo in culo valeva in soldi o cibo. Le feci ciao con la mano, sicura che lei non mi vedesse, la mamma puttana se ne va. La mamma puttana non ha più niente da darti. Così mia avviai a prendere il primo autobus per la città e tornai alle vecchie contrade, dove mi conoscevano per la mia vagina bagnata prima che per la mia maternità.
Una collega disse che le ero mancata e che senza di me quel luogo non sembrava lo stesso, poi aggiunse che un giorno era venuto un tale a cercarmi per parlarmi di qualcosa. Dalla descrizione capii che doveva essere il padre della bambina. Non capivo cosa volesse ancora da me. Gli avevo dato tutto e gli avevo lasciato sua figlia. Non potevo dargli altro. Risposi che non era nessuno e mi rifugiai nella camera che mi aspettava da due anni. Sollevai gli scuri e feci entrare un po’ d’aria fresca, poi spolverai tutto e rifeci il letto. La notte stava arrivando e quando avrei acceso la lampada rossa i clienti sarebbero arrivati a fare la fila. Quella notte arrivò un cliente inaspettato, era il mio ex datore di lavoro, il gestore della caffetteria. Entrò con lo sguardo cattivo dicendo cose che non avrei voluto ascoltare. Disse che mi avrebbe ricordato cosa vuol dire fare la madre perché mi avrebbe dato un figlio, da crescere e custodire, senza potermi lamentare. Poi mi stuprò, mentre le lacrime bagnavano le guance e io tenevo la bocca stretta, per non emettere lamenti, né urla. Sapevo di averlo turbato con il mio racconto ma non pensavo che si ergesse a paladino delle madri punendomi con uno stupro. Quando andò via lavai per bene tutto quanto, col getto della doccia lavai lo sperma di quell’uomo, sperando che non ne fosse rimasto molto.
Il giorno dopo chiesi alla collega se c’era un modo per far sparire un bimbo non nato. Mi disse che circolava una pillola ma non era legale. Non sapeva come procurarsela ma conosceva una mammana che avrebbe potuto aiutarmi con l’aborto. Perciò in quei tempi di nuova oscurità attesi pazientemente che il bambino svelasse la sua esistenza e quando il sangue non venne seppi subito cosa fare. La mammana era una donna anziana che parlava un dialetto antico. Il luogo in cui mi accolse era pulito, mi disse che era un bene altrimenti potevo beccarmi un’infezione. Poi mi disse di stendermi su un materassino coperto da un lenzuolo chiaro. Non c’era anestesia e neppure conforto. Lei infilò un attrezzo nella mia vagina e poi un altro che mi strappò le viscere. Sanguinai molto e lei disse che se il sangue fosse durato più di un giorno dovevo andare in ospedale per farmi strappare via il pezzo di placenta che era rimasto. Di più non poteva fare. Pagai il dovuto e stretta all’addome, come se l’utero mi stesse maledicendo, attesi la notte, poi ancora un giorno, sdraiata su lenzuola ormai piene di sangue. Andai in ospedale e lì trovarono il mio utero danneggiato, un foro o qualcosa di simile e ricucirono e poi placarono il dolore con l’anestesia. Rimasi un paio di giorni e prima di rispondere a domande sconvenienti scappai via consapevole del fatto che mai più avrei potuto avere figli.
Camminai svelta per andare in caffetteria e urlai all’uomo che avevo gettato via il dono che mi aveva fatto col suo stupro, lui fece segno di star zitta e io urlai ancora e poi scappai. Mi rannicchiai sul letto ancora pregno del mio sangue, piangendo per la figlia nata, per lo stupro e l’utero ferito. Quello era il mio destino e non potevo farci proprio niente. Per giorni rimasi chiusa senza rispondere a nessuno, prendevo antidolorifici e dormivo. Non avevo neppure trent’anni e mi sentivo marcia e vecchia. Sentivo odore di marcio che veniva da me stessa, dalla mia vagina, dal mio utero lacerato, dal mio corpo abusato. Sentivo il marciume che mi sommergeva e volevo solo dormire senza svegliarmi mai più. Dopo due settimane tornai a lavorare, i soliti clienti e qualche adolescente arrivato in città per la visita militare. Non parlavo, non sorridevo, non gemevo, non c’erano rumori nel mio mondo in quel momento.
Prendevo i soldi e li cacciavo via. Se mai avevo pensato che qualcosa potesse andare meglio avevo poi capito che non sarebbe successo. La mia vita era solo respiro a perdere, fatica sprecata, mentre pensavo che l’unico attimo in cui mi ero sentita viva era quello in cui una bambina che odiavo mi rispondeva chiamandomi stronza. Aveva imparato bene nomignoli e parolacce e sperai le servissero per difendersi dai mostri che stavano dappertutto, anche dove meno te li aspettavi. Dopo qualche giorno capii che il dolore non era passato e che l’infezione era estesa e non mi avevano guarita. Andai in ospedale e dissero che non potevano fare nulla. Andai dalla mammana e lei disse che me lo aveva detto. Mi restava poco tempo e volevo almeno godermelo. Presi dei farmaci per un sonno lungo. Li aveva la collega, per le sue insonnie. Aspettai che il sonno arrivasse, mentre facevo giochi con le mani e le ombre sul muro, gli animali che si rincorrevano. Il sonno infine arrivò.
- Questa è una storia inventata, una somma di memorie che mi sono state regalate da tante donne nel corso degli anni. Ogni riferimento a cose o fatti o persone è puramente casuale –
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