C’è stato un momento in cui ho smesso di respirare. Vedevo me stessa in quella stessa posizione, per giorni, poi furono anni. Sul divano, con il computer acceso per vedere serie tv che mi scivolavano addosso, senza capire a volte di che parlassero. Solo per sentire un rumore che silenziasse i miei pensieri. C’era un dolore acuto che mi immobilizzava e non sapevo cosa farne. Mi alzavo solo per pisciare, mangiare, dormire. Nulla cambiava. La notte era il momento peggiore, in attesa che i farmaci facessero effetto, vedevo mostri, il buio, mi sentivo maledettamente sola, quel dolore mi lasciava sanguinante, in ogni parte del mio corpo. Il volto lasciava vedere quel che io sentivo dentro. La faccia piena di croste, e io grattavo, senza alcun prurito, solo per togliere le croste, sentire il sangue scorrermi sulla pelle. Volevo cancellare me stessa. Senza riuscirci. A volte udivo voci esterne, lui, che cercava di dirmi qualcosa ma non sentivo. Non lo ascoltavo. Vivevo in silenzio, fuori dal mondo, in quella nicchia che diventava sempre più confusa e la occupavo stanca eppure tenace in quel modo di isolarmi. Non sentivo più il mio corpo, non ne avvertivo i contorni. Ogni tanto osservavo le mani e le vedevo invecchiate. Mi chiedevo perché scorresse il tempo senza che me ne accorgessi. La depressione ti fa creare un mondo a parte. Un mondo al quale è impossibile accedere senza conoscere le giuste frasi, e le giuste parole. Non era una scelta. Ero solo io. La sofferenza volte si faceva acuta, premeva per uscire sotto forma di pianto o urla. Ma il mio urlo era silenzioso.
Nessuno poteva ascoltarlo, apparentemente ero passiva e nel frattempo i pensieri bui continuavano a macerare nella mia testa, creando una confusione che non riuscivo a gestire. Al calar della sera c’era il momento che temevo di più. Emergevano le paure, tutte quante. Il terrore di essere viva e di respirare ancora, il terrore che altri rumori potessero destarmi e fare emergere quel dolore che tenevo sopito. La depressione è una difesa. Un modo per sopravvivere ai traumi mai elaborati. Dentro di me mi sentivo lucida, in grado di generare pensieri razionali. All’esterno quei pensieri assumevano suoni alterati, privi di senso, inaccessibili all’ascolto di chi tentava di capirmi. Era la prima volta per me. Non riuscire a tradurre i pensieri in parole dette o scritte. Vivevo in silenzio, senza riuscire a comunicare con l’esterno o con me stessa. La depressione mi rendeva inerte, impassibile, assente. I farmaci che avrebbero dovuto stabilizzare il mio umore mi davano sonnolenza, bloccavano la mia libido, mi facevano quasi sentire come un vegetale. In quei momenti serve un suono che riesca a penetrare i silenzi di una depressa. Forse un altro trauma. Forse un disastro. Qualcosa che mi colpiva interiormente lasciandomi priva di forze e senza alcuna scusa per riconciliarmi col silenzio. Sentivo una solitudine profonda eppure non facevo niente per spezzarla. Non ero in grado di socializzare, rispondere al telefono, parlare con qualcuno.
Lui tentò di dirmi più volte del suo disagio ma non lo ascoltavo. La solitudine di una depressa è accompagnata dalla solitudine di una persona che l’assiste. Il male che ho vissuto ha coinvolto le persone che mi circondavano, quelle che a distanza si preoccupavano per me. Quel male era silenziato per vergogna, senso di colpa. Una vergogna devastante dovuta allo stigma, all’impossibilità di vedersi passiva, senza controllo, di fronte una malattia di cui si conosce molto poco. La mia vita era già stata caratterizzata dall’assistenza ad una malata vera, di una malattia reale, quella era mia sorella. La mia depressione, in confronto, sarebbe stata giudicata un capriccio, un problema di scarsa volontà, perciò me ne vergognavo. Perciò provavo profondi sensi di colpa nei confronti della persona che mi assisteva. Eppure avevo momenti di lucidità estrema, io ne ero consapevole. Nel mio silenzio coltivavo l’idea che il giorno dopo sarei stata meglio, il non riuscirci mi rendeva ancora più colpevole, mi faceva sentire un’incapace, una fallita, un essere inutile, non in grado di dare assistenza e ascolto a nessuno. Tantomeno a me stessa. Vedevo tante donne sforzarsi ogni giorno per sopravvivere. Svegliarsi, accompagnare i figli, studiare, lavorare, sistemare la casa, e le invidiavo, quanta forza mi dicevo. Invece io ero inutile, non ero in grado e pensavo di non saperlo fare fintanto che mi dissero della mia malattia. Cominciò con i disturbi dell’alimentazione. Giorni di stasi e sensi di colpa dopo aver mangiato troppo. Il grasso che sembrava diventare una corazza per difendermi dagli altri, per non essere notata, poi diventò qualcosa di più. Comparve la rassegnazione, assieme all’attesa, senza certezze, pensando dovessi accontentarmi della mia mediocrità, che mai avrei potuto superare quel periodo e mai avrei potuto apprendere il modo per riemergere dal fango o dalla merda.
Una merda di cui sentivo il sapore, la consistenza, il fetore, che mi accompagnava in ogni momento, mentre facevo sempre più fatica e tenevo indosso un pigiama, sempre lo stesso, puzzolente, fintanto che non mi si rompeva addosso, perché abusato, traumatizzato, un po’ come me. Non ero in grado di lavarmi, pettinarmi, fare lo shampoo, curarmi. Il fetore che emanavo si sentiva lontano un miglio. Deve essere stato terribile per lui dormire con me. Lo vedevo sbuffare e io andavo a dormire sul mio divano, lo stesso in cui passavo le giornate. Il nostro rapporto divenne sempre meno fisico, fatto di odori sgraditi, senza abbracci, fatto di alito puzzolente. Non è poi così vero che si muore in un momento solo. Mi stavo uccidendo, trascurandomi, non badando ai malesseri che turbavano la quiete, feroci mal di testa, mal di denti, problemi al fegato ingrossato per le schifezze che mangiavo, poi vomitavo ma era comunque un danno provocato al mio corpo. Pensavo che sarei morta di infarto prima o poi e speravo che avvenisse in fretta. Perché uccidersi lentamente è doloroso ma quel corpo abbandonato a se stesso continua a crescere e invecchiare e i suoi disturbi mai analizzati, senza ricorrere ad un medico, possono divenire mortali. Se il cuore non fosse così sano sarei morta anzitempo, senza disturbare nessuno, senza avere il tempo di svelare quel che mi succedeva. Morta di infarto, non si può chiamare un suicidio ma trascurarsi in fondo lo è. Tentavo di morire da molto tempo, senza riuscirci. Ed aspettavo solo che avvenisse, prima o poi. Ti libererai di me, pensavo a lui che si mostrava insofferente, nel mio egoismo, volevo solo contare le mie cicatrici senza contare quelle che infliggevo ad altri. E nel frattempo non mi davo l’opportunità di pensare ai distacchi, alle rotture affettive, a tutti i traumi e gli abbandoni, ai lutti, perché dolore sommato ad altro dolore mi portava a diventare sempre più assente. Quasi in catatonia.
Vivendo chiusa in una stanza ti abitui ad avvertire i rumori di tutti quelli che abitano il palazzo. La vitalità della signora che abita al piano di sopra, sempre a spostare mobili e pulire. Gli affari condotti per telefono dall’immobiliarista della parete accanto. Il sali e scendi delle persone che abitano i piani più alti. Sentivo voci di bambine poi diventarono grandi, delle adolescenti, e mentre il mondo cresceva attorno a me io invecchiavo, lì chiusa, nella stessa posizione. Conosco ogni dettaglio del panorama che riesco a scorgere dalle finestre. Il bar all’angolo, le auto che si tamponano di frequente, la gelateria con pochi clienti, l’ottico e la pizzeria. Abitando al piano terra era ovvio che il postino suonasse al mio citofono per farsi aprire e depositare le buste. Io sollevavo il capo, a volte mi avvicinavo piano alla porta, per non farmi sentire, guardavo dallo spioncino col terrore che mi potesse notare. Volevo essere invisibile. Nessuno doveva sapere dove io fossi o che esistessi. Volevo sparire, mi tappavo le orecchie, per non udire la vita intorno, ad ogni rumore emergeva la certezza che io fossi ancora viva. Perché vivo?
La paranoia mi faceva sentire osservata, come se piccoli folletti penetrassero il mio ambiente e mi costringessero a tirare su i piedi, a rannicchiarmi sul divano, in posizione fetale, fintanto che arrivava lui, faceva le sue cose e io mi sentivo più tranquilla. Com’ero stupida, senza badare al fatto che egli attendeva una mia mossa per non sentirsi solo. Ma ero sola anch’io, perché di questo è fatta la depressione.
Vivevo nell’attesa che qualcosa potesse accadere, una cosa qualunque, e allo stesso tempo ero terrorizzata per ogni novità, una raccomandata che segnalava l’arrivo di una multa, notizie da altri mondi che richiedevano una mia assunzione di responsabilità. E io non volevo sapere, non volevo sentire, non volevo che nulla mi raggiungesse. Volevo solo morire. Si può sembrare morte anche da vive e forse io lo fui, morta, per lungo tempo, e oggi che torno a vivere mi sento un fantasma, qualcuno mi guarda come se lo fossi, le mie pretese segnalano che non mi rendo conto di quanto tempo sia trascorso in mia assenza, io idiota a pensare che tutto sarebbe stato come prima. Non è così. Tutti sono andati avanti, io sola sono rimasta indietro. Così è la vita, e me ne rendo conto troppo tardi, con nuovi farmaci, una psichiatra che ha individuato il mio problema, persone che mi dicono che tutto è cambiato e che in mia assenza altre scelte sono state fatte. Devo farci l’abitudine, sentire il presente senza restare ancorata al passato, questa è la mia nuova scommessa. Non c’è da recuperare sogni non realizzati o rapporti interrotti. Si ricomincia da capo, in solitudine, attendendo la sera, in modo che io possa dormire e riposare, dopo una lunga giornata piena di rifiuti, speranze interrotte e sogni infranti. Affronto adesso i miei lutti e il mio dolore, senza nascondermi o vergognarmi. E cerco di gestire le mie cose, i miei problemi di burocrazia, lasciando spazio alla fantasia nella scrittura, il solo momento in cui posso fingere di essere altrove, perché oggi è richiesta la mia presenza qui ed è qui che resto. Finalmente sveglia.
Eretica Antonella
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1 pensiero su “Depressione: essere morte da vive”