Antisessismo, Autodeterminazione, La posta di Eretica, R-Esistenze, Storie

Quel che succede dopo lo stupro: narrato da una vittima

Lo stupro non è sesso, non c’entra col piacere. Non riguarda lo straniero. Non riguarda nessuno stereotipo che viene diffuso solo per proteggere la maggior parte degli uomini educati attraverso la cultura dello stupro. Dopo che fui stuprata, cominciai a fare le mie indagini, raccolsi articoli di cronaca, lessi materiale inerente all’argomento, ascoltai conferenze in cui se ne parlava, cercai di seguire il più possibile processi in cui gli stupratori venivano accusati e condannati. La cosa che più di tutte mi colpiva era lo sguardo degli stupratori, diverso in qualche modo, indifferente, non metteva in mostra nessun segno di empatia. La vittima invece stava seduta in prima fila, colma di vergogna, protetta dagli abbracci dei parenti o delle amiche, mentre i parenti del colpevole la insultavano e la chiamavano puttana. Il fatto che persino in quei processi una vittima potesse essere aggredita in quel modo mi fece pensare. Quegli uomini e le loro famiglie non capivano, non erano in grado, pensavano che lei, la vittima, fosse la vera colpevole e non cercasse giustizia ma vendetta per ragioni insite in chissà quale trauma precedente. Come se la vittima nell’accusare lo stupratore volesse in qualche modo vendicarsi di tutti gli uomini. Ed è una cosa che è stata detta anche a me. Mentre narravo del mio stupro le amiche mi dicevano che in fondo mi era andata bene. Non era stato poi così violento. Era stato quasi dolce. Si può definire uno stupro dolce? Mi dicevano che il fatto che io non avessi reagito poteva essere interpretato come un consenso. Mi dicevano anche che sembravo arrabbiata nei confronti di tutti gli uomini. E questa tiritera ho dovuto ascoltarla in ogni situazione in cui si parlava di stupratori. 

La donna che accusa il suo stupratore non viene vista come colei che chiede giustizia perché le è stato negato il diritto ad esprimere consenso su una violenza che è stata agita sul suo corpo. Quella donna viene vista come una persona vendicativa, rancorosa, che non ha ben capito forse i sentimenti che spingevano lo stupratore a inseguirla, perseguitarla, stuprarla. 

Mi colpì molto, durante un processo, l’affermazione di un avvocato difensore dello stupratore. Quando lui parlava dello sguardo del suo cliente lo descriveva come lo sguardo di un innamorato. Sarebbe l’amore quindi la spinta che obbliga lo stupratore a compiere una violenza. Come se lo stupratore avesse il diritto di rivendicare il possesso del corpo della donna amata. Come se addirittura lo stupratore ritenesse di meritare l’amore della donna stuprata. Un gesto d’amore compiuto con violenza, questo sarebbe lo stupro secondo quello e probabilmente tanti altri avvocati difensori che tentano di evitare la galera agli stupratori. 

Ho anche pensato, a volte, di dovermi immedesimare nella mentalità dello stupratore. Se egli avesse ottenuto un’educazione volta al rispetto del consenso da parte della donna l’avrebbe ugualmente stuprata?  Se la mentalità comune ci dice che quando una donna dice no in realtà vuol dire sì. Se dice che è l’uomo a dover provare, a corteggiare, affinché lei ceda. Se questa cultura insegna all’uomo che per essere virile deve insistere e provare con ogni donna incontrata. Se tutto questo è vero da chi dipende allora? Di chi è la responsabilità? 

Se ad un ragazzino viene insegnato che toccare il culo di una donna che passa per strada sia cosa buona e giusta. Se gli viene insegnato a fare a gara con gli altri maschi per dimostrare chi si porta a letto più donne. Se è vero tutto questo dovremmo allora occuparci della cultura, smantellarla, rimetterla completamente in discussione. Dovremmo occuparci di educazione sessuale e di educazione al rispetto del consenso. Dovremmo insegnarlo ai bambini e alle bambine. Poiché le bambine altrimenti cresceranno con un grave senso di colpa che proveranno ogni qualvolta un uomo le violenterà. Perché se da un lato c’è chi dice agli uomini di insistere e provare e che se lei dice no invece vuol dire sì, dall’altro c’è chi dice alle donne di resistere di dire di no per dire sì. Questa educazione tocca entrambi i sessi e tutti i generi. 

Mi sono trovata spesso a leggere storie di ragazze e donne che attribuivano a sé stesse la colpa per la violenza subita. Erano rimaste immobili, come ho fatto anch’io, paralizzate, non erano state in grado di dire di no in maniera chiara per quanto fosse disagevole l’esperienza che stavano vivendo. In certi casi addirittura pensavano fosse giusto continuare perché dire di no sarebbe stato spiacevole. Quindi il problema non è soltanto quello di insegnare a dire e ad ascoltare un no come risposta. Il problema è che lo stupro avviene in tutte le circostanze in cui una donna non vive il sesso come una propria scelta. In tutte le circostanze in cui lei non si sente proprio agio. Un uomo dovrebbe capire il linguaggio del corpo della donna con cui è a letto. Dovrebbe capire se lei si sente a proprio agio oppure no. Dovrebbe anche capire che c’è una cultura opprimente che impone alle donne di non dire niente anche quando stanno vivendo un’esperienza che per loro rimarrà traumatica. È troppo facile riferirsi allo stupro come all’aggressione violenta da parte di un uomo che lascia la donna piena di lividi, morsi, ferite. Lo stupro avviene in tutte quelle situazioni in cui la donna non si sente libera di scegliere. La consensualità è un fattore importante e va verificata anche nella vita quotidiana di coppia tra fidanzati o persone sposate. Il fatto che siano fidanzati o sposati non significa che lei voglia esattamente quel che vuole lui. Perciò è così complesso dimostrare quando lo stupro avviene all’interno di un legame affettivo. 

Da tutte queste premesse io parto per cercare di ragionare su una possibile soluzione che porti a prevenire lo stupro. Non parlo di castrazione chimica o di altre baggianate diffuse da certi personaggi di destra. Non parlo di vendette, di interviste agli stupratori, di un eventuale recupero sociale dello stupratore, né di un registro pubblico degli aggressori sessuali. Tutto ciò fonda le basi solo per la costruzione di una società che ambisce al controllo dei corpi delle donne per affidarle a tutori paternalisti e altrettanto sessisti. Una società del controllo, che parla di sicurezza mentre rivolge l’attenzione solo in chiave xenofoba agli immigrati, non è adatta alle donne che vogliono essere libere di realizzare libere scelte sulla propria sessualità. Se la sessualità delle donne viene consegnata sotto al controllo dei tutori non otteniamo nulla di diverso da quel che è stato con i pater familias e il loro diritto al delitto d’onore o a negoziare matrimoni riparatori qualora le figlie venivano dis-onorate.

Che fare allora? L’idea è sempre quella di imporre le nostre parole d’ordine, perché quando nominiamo la violenza essa diventa evidente, diversamente resta in una zona d’ombra, invisibile, che tanto piace agli stupratori, in special modo a quelli che prendono di mira bambini e bambine piccole. Quale omertà resiste nelle famiglie in cui un nonno o un padre o un fratello maggiore perpetra nei confronti di una minorenne crimini sessuali. Quanto conta per certe famiglie la stabilità sociale ed economica per obbligare a volte le figlie a tacere. A tutte queste discrepanze, contraddizioni, incoerenze, dobbiamo fare attenzione. Perché altrimenti potremmo trovarci a sfilare in corteo contro la violenza sulle donne con le stesse persone che hanno in famiglia almeno uno stupratore da celare e da difendere. 

Lo stupro viene poi citato spesso quando si parla guerra. Le donne finiscono per diventare il bottino dei colonizzatori. La qual cosa non è in contraddizione con quel che l’atto dello stupro stesso diventa anche in altri casi. Si tratta comunque di un atto di colonizzazione dei corpi altrui. Il corpo della donna viene colonizzato e spesso quella colonizzazione deriva dall’istinto predatorio di un maschio che si comporta come un virus. Cerca di attecchire dove può provocare la riproduzione della specie. La specie degli stupratori. Ricorderete che di questo si parlò quando per esempio i serbi stuprarono le donne del Kosovo per riprodursi, non come specie ma come serbi. Così viene espressa la volontà di certi fascisti quando dicono di dover compiere stupri punitivi ai danni di lesbiche, per correggerne la sessualità, secondo la norma eterosessuale, e farle diventare contenitori di riproduzione di altri piccoli balilla. Una delle fissazioni di Mussolini, se ci pensate bene, era quella di eleggere la madre dell’anno, se sfornava almeno dieci figli. Dieci piccoli balilla da donare alla patria che compissero altre guerre e altri stupri per colonizzare altri luoghi. 

Tutto questo per dirvi che la storia che sto per raccontare racchiude ogni fattore fin qui descritto. Non si tratta di una storia completamente vera, poiché non posso rivelare nomi e luoghi riconoscibili, diversamente tradirei la privacy di chi mi ha raccontato. Ma si tratta comunque di una storia complessa che vale la pena raccontare alla mia maniera, in questo caso sotto forma di lettera ad una amica (che nella storia vera esiste). Mi scuserete se ci saranno errori ma sapete che faccio la scrittrice per diletto e soprattutto per divulgare concetti e storie che altrimenti resterebbero dimenticati. Spero vorrete a vostra volta far passare il messaggio e con ciò vi auguro una buona lettura. 

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Cara Linda, amica mia, ti scrivo dal rifugio in cui mi trovo, per poter continuare a vivere senza dover rispondere alle domande di nessuno. Tu, più di tutte, sai quanto ho faticato durante questi anni per portare avanti l’accusa di stupro contro Maurizio. Mi è costato molto, capisco le donne che non vogliono denunciare perché è una scelta difficile ma se tornassi indietro io la rifarei. Quello che ho vissuto mi ha cambiata, non sono più la ragazza spensierata che conoscevi, probabilmente oggi non mi riconosceresti perché non curo più il mio aspetto, vesto abiti semplici e faccio di tutto per non farmi notare. So quello che vorresti dirmi, che non è stata colpa mia, ma dentro di me è rimasta comunque quella vergogna, lo stigma della puttana che le sue amiche mi hanno piantato addosso e che non sembra voler abbandonarmi.

Quando l’amica di Maurizio diceva che stavo distruggendo una vita non aveva idea del fatto che in realtà il numero di vite distrutte è più alto. Essere vittima e ottenere giustizia non mi ha resa più libera, non mi ha fatto sentire fiera o più forte. Le femministe dicono che sono stata coraggiosa in realtà tremavo di paura e quella paura continuo a portarla addosso. Non vado alle feste, non frequento aperitivi e drink bar, né discoteche. La fiamma, come la chiamavi tu, si è spenta e non so se potrà mai riaccendersi. Quello che mi ha fatto Maurizio non ha toccato solo qualche parte del mio corpo. Lui mi ha cambiata ed è questo che non gli perdonerò mai. Non ne aveva il diritto. Quello che le femministe dovrebbero sapere è che dopo lo stupro, dopo la denuncia, dopo i tanti processi e tutte le chiacchiere che ho dovuto subire, perché i processi li ho vissuti come se l’imputata fossi io e non Maurizio, dopo tutto questo resto io, sola, lontana da tutto, anche da me stessa.

I riflettori sono spenti, la cronaca si occupa d’altro, il Capitano Borgetti starà inseguendo altri criminali, l’avvocato Bellomo difenderà altri criminali, Marina troverà una nuova causa per dirottare odio, Maurizio passa il tempo in carcere a studiare, tu in qualche modo continui la tua vita e io, invece, mi sento ferma a quegli istanti, continuano a tornarmi in mente e non riesco ad andare avanti, anche volendo, perché la mia mente ha reagito al trauma con la depressione e da questo male non so liberarmi. Se c’è qualcuno che è stato condannato quella sono io, con una condanna a vita. So che non dovrei dire questo, fa male alle altre vittime di stupro, non posso togliere loro la speranza che andrà meglio. So che dicendo questo do ragione a gente ignobile che coltiva leggende su vergini il cui stupro ha reso meno santificabili. Sono quelli che mi dicevano Poverina, la sua vita non sarà più la stessa, e poi scrivevano cose orribili su di me. Solo per contraddirli vorrei essere felice e tornare a vivere com’era un tempo. Perché non si pensi alla mia sessualità come corrotta, ormai morta, per la felicità dei custodi della verginità delle ragazze. Così da prendermi ad esempio per dire alle figlie che se sbagliano saranno rovinate per sempre.

La mia rovina non c’entra con la sessualità o con l’onore tanto caro a certi uomini. Non sono rovinata affatto, non mi dispiace fare sesso se è consensuale e lui mi piace. Quello che Maurizio ha cambiato è la mia percezione del mondo, delle cose, delle relazioni di ogni tipo. Se lui che diceva di amarmi mi ha fatto questo come posso tornare a guardare agli altri senza diffidenza. Da quando sono qui ho avuto piccole relazioni, avventure di una notte, perché il mio orgasmo va bene e la mia capacità di dare e ricevere desiderio esiste e non può essere cancellata. Quello che non riesco a fare è dire Ti amo o ascoltare qualcuno che vorrebbe dirmelo perché L’amore diventa un alibi per qualunque cosa. E’ per amore che Maurizio non mi ha lasciata in pace quando gli dicevo che era finita. E’ per amore che lui ha inventato delle scuse per potermi rivedere. E’ sempre per amore che si è sentito incoraggiato ad aspettarmi sotto casa, a dare un pugno al mio amico, inseguirmi per le scale e sbattermi la testa al muro.

E’ per amore che mi ha perseguitata per mesi approfittando dell’unico momento in cui ero da sola per chiedermi di parlare e io ho parlato, dicendogli che era finita, ripetendo che non c’era niente da fare. Per quell’amore ai suoi occhi sono diventata la cattiva, la vipera, la strega da punire, perché lui diceva di soffrire per amore. Tu sai quanto ho cercato di essere paziente e che denunciarlo per stalking è stato inevitabile. Allora pensavo, sbagliando, che con quella denuncia lui avrebbe posto un freno alle sue richieste. Pensavo si fermasse. Invece è andata peggio, lo sai, vero? Te le ricordi quelle rose che trovavo sempre legate al palo vicino la mia casa? ne ridevamo, però quel che voleva dire è che lì probabilmente io sarei morta. Per mano sua. E dopo la seconda denuncia ha mandato Marina, la sua amica, a dirmi che ero senza cuore, che l’avevo usato e poi buttato via come immondizia. Marina disse che l’immondizia ero io e che se fosse stata al posto di Maurizio mi avrebbe lasciata molto prima. E’ un uomo buono, mi diceva, lui impazzisce d’amore per te, non gli puoi fare questo, non lo capisci quanto è disperato. Non dorme più, non vive più. Io le risposi che quello non era amore ma ossessione e lei mi sputò in faccia, chiamandomi puttana, perché con Maurizio avevo fatto sesso e poi la davo a un altro, come se niente fosse.

Troia, vacca, puttana, quante volte me l’ha scritto prima che denunciassi lei per diffamazione. Però organizzava i cortei per venire a sostenere Maurizio in tribunale. Erano tifoserie e pensavano fosse una partita di calcio. Ti ricordi quante ingiurie scriveva su facebook su di me? Poi c’erano gli amici della squadra che davano informazioni false ai giornalisti, rilasciavano interviste. Qualcuno scrisse perfino un editoriale su di me, sulla razza succhia sangue delle donne come me, che prendono tutto, si fanno comprare regali costosi, si fanno portare a cena in locali chic e poi quando hanno preso tutto passano ad un altro fesso. Io mi ricordo che a cena mangiavamo pizza e che gli unici regali che mi fece furono un paio di orecchini da bigiotteria. Mi vergogno perfino a dover precisare queste cose, come se attenuassero la gravità di ciò che ha fatto. Perciò non mi fido più di nessuno e se mi portassero un fiore lo getterei via. Niente legami fino a quando non sarò in grado di capire come sono finita con uno come lui. Perché lui è un uomo terribile ma allora io? Che razza di bisogno avevo di farmi affascinare da uno come lui? Sicuramente avevo lacune affettive, non lo nego.

L’ho incontrato in un momento di grande fragilità, per mia madre sai, quando ho pensato che il cancro la portasse via. Però ci sono cose che non mi spiego e a ripensarci oggi mi viene da ridere e da piangere allo stesso tempo. Come ho potuto pensare di essere innamorata di lui? Non parlo del suo aspetto fisico, perché per innamorarsi servono altre cose, ma dei suoi modi, così rozzi. Uno spaccone, un bullo, ecco cos’era. Voleva darmi tutto, mi prometteva tutto, diceva che mi avrebbe amato per sempre e che mi avrebbe resa la donna più felice della terra. Un po’ la trama di certe cantate senza senso. E in quel momento avevo bisogno che fosse vero, volevo credere che lui fosse perfetto per me. Poi mi svegliai, mia madre stava meglio, io mi iscrissi all’università e lui cominciò a non essere più così perfetto. Voleva che gli restassi vicina tutto il giorno, era geloso dei miei colleghi e di chiunque mi vedesse intorno. Disse che se l’amavo avrei dovuto scegliere, perché lui mi avrebbe resa felice, sposata entro l’anno, anche se non aveva lavoro e non sapeva come e dove avremmo vissuto, dovevo lasciare l’Università. La moglie di Maurizio non può lavorare, disse. Non ci abbassiamo a tanto. Lui l’uomo e lui avrebbe portato i soldi in casa. Io avrei solo dovuto fare la regina, magari qualche figlio, ma niente di più perché lui non voleva che mi affaticassi. Quando gli chiesi di accettare il fatto che volevo una laurea e avrei voluto lavorare la prese male e tutto cominciò ad andare a rotoli, come se il problema fossi io.

Gli dissi che non era colpa di nessuno, eravamo solo molto diversi e volevamo cose diverse. E tu lo dici così? Chiese. Certo, come dovrei dirlo? Non mi lasci altra scelta che finirla. L’hai detto tu che dovevo scegliere e io ho scelto. Lì sono stata scorretta, giusto un pochino, perché avrei dovuto dirgli che comunque mi ero resa conto di non amarlo affatto. Avrei dovuto chiarire meglio questo punto. Forse l’avrei sollevato dalla sua ossessione, forse avrei potuto fare di meglio e con questo faccio i conti ogni giorno, chiedendomi se potevo evitare tutto quello che è accaduto dopo. Ma poi mi dico che non è così. Sarebbe finita lo stesso e lui avrebbe reagito come ha fatto. Mi avrebbe perseguitata, picchiata e poi stuprata. Quando riuscì a entrare in casa mia, Dio solo sa come ha fatto, pensavo di sognare, era mattino presto, un incubo, pensai. Invece era lui, seduto davanti al letto che sorrideva e diceva che mi aveva portato la colazione e delle rose. Gli dissi subito di andarsene o avrei chiamato aiuto. Lui disse chiama, grida pure, non mi interessa. Invece gli interessava. Aveva nascosto il mio telefono, aveva chiuso la porta e le finestre e sapeva come farmi tacere.

Trovarmelo addosso è stato tremendo, di colpo io smisi di muovermi, non reagivo, non parlavo, non lo ascoltavo, non ero lì. Pensavo di trovarmi altrove e che quella fosse un’altra persona. Non ero io sotto Maurizio, mentre mi dava sberle e mi girava per penetrarmi l’ano. Non ero io. Ti giuro, Linda, pensai di essere pazza perché era come se mi guardassi dall’esterno. Come se ci fossero due me. Una picchiata e violentata e l’altra ad assistere in silenzio. Mi hanno spiegato che la mente produce queste dissociazioni per proteggerci dal trauma. E’ una qualche forma di astrazione. Non so spiegarlo ma è stato immediato e ho smesso di sentire dolore. Quando sono tornata in me ho reagito, gli ho dato un calcio e Maurizio è finito a terra. Allora mi sono messa a urlare. Per fortuna nell’appartamento di sopra c’eri tu. Per fortuna sapevi tutto e hai chiamato i carabinieri. Ma ricordi che faccia ha fatto Maurizio? Come se tutto fosse sbagliato, diceva che lo avevo invitato a fare colazione, aveva portato anche le pastarelle, avevamo fatto l’amore e poi di colpo sono impazzita e gli ho dato un calcio. Io avevo la faccia rossa per le sberle ma il sangue in faccia l’aveva lui. Se al posto del capitano Borgetti ci fosse stato un altro penso che gli avrebbe creduto.

D’altronde a modo suo Maurizio diceva la verità. Io ero assente, non dicevo nulla, se non fosse stato il mostro insensibile qual è si sarebbe reso conto che non stavo bene, ma per lui quel silenzio significava che ero d’accordo, avevo ceduto, lui aveva vinto. Uno stupro è un atto di potere e di dominio e lui aveva vinto. La mia sconfitta me la porto addosso. Quella non era una guerra che avrei dovuto perdere e lo so che non è la guerra ma solo una battaglia. Però l’ho persa e lui ha vinto. Ha avuto quello che voleva. Mortificarmi, umiliarmi, farmi restare in silenzio, anche se per poco c’è riuscito. E ha goduto, mi è venuto addosso perché per lui è stato il massimo del godimento. Come può un uomo eiaculare su una donna assente? Continuo a chiedermelo. Il sesso è bello se si partecipa, insieme. Ma se una è assente che razza di gioco è? Si chiama stupro, infatti. Per lui non fu abbastanza. Grazie al capitano Borgetti, che mi ha ascoltata e che sapeva delle denunce per stalking, ho potuto fare denuncia per violenza sessuale. Grazie a lui ho superato ben tre perizie psichiatriche che l’avvocato di Maurizio ha voluto per dimostrare che io non ero sana di mente.

Borgetti disse che ero perfettamente lucida e presente e che nel momento dello stupro avevo smesso di reagire per evitare che lui mi uccidesse. Ed è possibile. La mente mi ha salvata dal trauma, mi ha allontanata dal dolore, ha intravisto un rischio che non dovevo correre. Se in quel momento avessi reagito lui mi avrebbe uccisa, lo so, ne sono certa. Lo sguardo perso che aveva nei processi, quando si parlava di lui come potenziale assassino, mi fa capire che lui sa di aver perso il controllo. Sa di aver rischiato l’ergastolo per omicidio. Ed eccomi qui, ora, a ripensare a tutto, usando questa lettera indirizzata a te per fare un bilancio che da sola non riesco a portare avanti. Sai che considero la caserma dei carabinieri come se fosse casa mia? In quei giorni, quando non riuscivo a tornare a casa per i giornalisti e gli amici di Maurizio, Borgetti mi teneva in caserma, mi parlava, raccontava di altre donne come me e che non vedeva l’ora di acchiapparli tutti, gli stupratori. Bellomo invece, quell’avvocato, in tribunale e nelle conferenze stampa ha usato ogni sinonimo possibile per darmi della puttana pazza. Credo che un avvocato dovrebbe fare meglio di così. Pensava che mettendomi in cattiva luce avrebbe fatto assolvere il suo cliente, come forse avveniva in passato. Peccato che oggi che tu sia puttana o meno se lui ti stupra comunque commette un reato. La reputazione della donna non conta affatto in tribunale o forse per certi vecchi giudici maschilisti che dovrebbero andarsene in pensione. A me sono capitati quelli buoni e intelligenti. Ma non hanno potuto evitare che la difesa scatenasse una campagna d’odio contro di me.

Aveva disegnato una trama con i controfiocchi. Io la puttana e lui la povera vittima. Io la pazza isterica e lui il povero uomo che non sognava altro che farsi una famiglia, avere dei figli, con questa donna. Io succhia sangue, lui uomo ingenuo caduto nella rete di questa orribile strega. Pensavo che questi concetti fossero oramai superati. Leggere le stesse cose scritte per mano di giornalisti famosi e di persone sconosciute su Facebook mi ha fatto capire che è in realtà quei concetti non sono superati affatto. In inglese si chiama victim blaming ovvero la colpevolizzazione della vittima, in Italia si chiama semplicemente sputtanamento gratuito della donna che ha subito uno stupro. Qui dove mi trovo nessuno sa niente di me e io non ne parlo. La lingua è diversa, non è detto che lo sia anche la mentalità. Gli stupratori sono dappertutto. Perciò devo ricordare che la mia solitudine in questo momento e la mia unica forza. Essere da sola, lontana da tutto, mi permette di ripensare a quello che è successo con la giusta distanza, senza dovermi mai giustificare e senza dover spiegare a nessuno tranne che a me stessa che tutto ciò che fu detto riguardo me era falso. Tuttavia come dicevo lo stigma della puttana ti resta attaccato addosso ed è per questo che dentro di me sento una inspiegabile vergogna, come se in qualche modo curare il mio aspetto, vestirmi meglio, essere attraente, possa dare a qualcuno l’alibi per aggredirmi.

Apparire insignificante è diventata la mia corazza, la mia armatura, come se ogni volta che uscissi mi preparassi ad un combattimento. Perciò evito sguardi, tengo la testa bassa, cammino rapidamente, rientro presto la sera. Faccio autoanalisi, con una psicologa che è specializzata in traumi come quello che ho vissuto io. All’inizio ho fatto fatica ad esprimermi chiaramente in una lingua diversa dalla mia, ma oggi va molto meglio. Io e lei ci comprendiamo e mi sta aiutando a ritrovare quella parte di me che è stata colpita dal trauma e che ogni tanto mi spinge a voler diventare invisibile per evitare ulteriori ferite. Finisco qui questa mia lunga lettera, sperando che tu stia bene e che avermi supportata per tanti anni non ti abbia arrecato alcun danno. Mi manchi molto, non ci sono in giro tante amiche come te, anzi penso che non troverò più un’amica come te. Ma come tu mi hai insegnato gli anni oramai trascorsi fanno parte di un periodo della mia vita ormai concluso, un nuovo ciclo deve iniziare a partire da me, con nuove amicizie, nuovi interessi, facendo tesoro dell’esperienza vissuta e della maturità che da essa deriva. Non ti ho mai ringraziato abbastanza per quello che hai fatto per me, per esserci stata sempre, senza chiedere mai nulla in cambio. Se c’è qualcosa che questa esperienza mi ha insegnato è che l’amore vero esiste e io l’ho trovato nell’amore che provo per te amica mia, un amore profondo perché quello che tu hai fatto per me non lo dimenticherò mai. Se dovesse capitarti ti prego di porgere i miei saluti al capitano Borgetti e di comunicargli che io sto bene, sono viva, vado avanti e in parte lo devo anche a lui. Ti auguro una vita ricca di cose belle e ti abbraccio forte mia cara amica.

A presto.

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