Mi sento persa, abbandonata. Continuamente e da chiunque. Come se non contassi niente. Mi serve solo un posto dove riposare i pensieri e non mi è possibile, non qui e non ora. Mi porto dietro un carico di traumi dalla nascita e devo elaborarne ancora per andare avanti. Una infinita quantità di lutti, separazioni dalla mia rete di affetti e quindi sola, qui, in un posto in cui non voglio stare, con qualcuno che mi alita sul collo perché io me ne vada pacificamente, senza conseguenze, senza rancore, senza rabbia, senza una lacrima.
Mi trovo in una città che per tutti è la culla dell’arte rinascimentale, Firenze. Non sono qui per scelta ma per seguire un tale che mi ha manipolata per vent’anni e ora vuole liberarsi di me. Finge di interessarsi, di volermi aiutare, la realtà è che vuole solo andare dritto per la sua strada senza nessun senso di colpa, con la coscienza tranquilla di chi ha fatto tutto il possibile. In realtà non ha fatto un cazzo né per me tantomeno per se stesso, a parte intrecciare una ossessiva e maniacale relazione con una setta dalla quale si aspetta l’illuminazione, la rinascita e la realizzazione del suo sogno: diventare ricco.
Chissà come ho fatto a innamorarmi di lui, davvero non lo so. Mi duole dirlo ma sono stata un’emerita cogliona. Una cogliona di prim’ordine. E ora sto così, a pagare le conseguenze di tutto quanto. i miei traumi e la mia relazione sbagliata. Le violenze passate e presenti.
Il numero del centro salute mentale squilla a vuoto e non chiamo per un’emergenza qualsiasi ma per chiedere un posto in cui andare a dormire. E rispondi, cazzo!
Non risponde nessuno. Vedrai che devo farmi ricoverare al reparto psichiatria, volontariamente. Almeno lì ho un letto e tre pasti al giorno. Altrimenti dove può stare una come me. Davvero non lo so. Mi spetta una zona di reclusione dietro l’altra. Prima la reclusione in una stanzetta in casa mia, per non disturbare il sonno del giovin signore e ora un’altra zona di reclusione a psichiatria, dove mi bombarderebbero di sedativi e sarebbe una bella cosa. Così smetterei di pensare ed arrabbiarmi. Ma ho tanta di quella rabbia in corpo che un palazzo non potrebbe contenerla tutta. Sono arrabbiata, con me stessa, per avergli permesso di farmi questo e perché non ho alternative se non quella di accettare la sua presunta gentilezza dato che non so dove andare.
Mi sento persa, abbandonata. Vorrei trovare un posto in cui vivono donne perse e abbandonate come me. Un posto in cui ci si aiuta l’un l’altra. Ma qui non c’è. Bisognerebbe inventarlo. Potrei farlo io, se ne avessi il tempo e l’energia. Ma ora è il tempo in cui devo prendere i farmaci per la notte, una droga sonnifera per non farmi svegliare neppure se arrivasse un terremoto. Una droga che non mi permette neanche più di sognare. Esclusi gli incubi, i sogni sono quelli che mi mancano di più. Con quest’amputazione del pensiero per gli antidepressivi ho tutte le emozioni a rallentatore. E se non fossi rallentata oggi questo posto esploderebbe. Quindi forse è un bene. Chi lo sa. Queste potrebbero essere le ultime parole che io scrivo perché tutto ciò che è in questa piccola prigione appartiene a lui e non posso portare via nulla se non quello che ho in testa. Poi scriverò sui muri, mi taglierò le dita e potrò scrivere col sangue di ogni cosa che mi passa in mente. Psichiatria non passa penne ai suoi pazienti. Potremmo usarle per trafiggerci la gola. Così censurano la creatività. Tutto normale, pareti bianche, linde e amputate, come la mia testa.
Quando pensavo a quello che avrei fatto in questa età, cosa sarei diventata, non mi trovavo in un reparto psichiatrico ma in un momento catartico e divertente tra scrittori contemporanei. Illusa ch’io potessi diventarlo un giorno. Invece sono solo questo. Una che immagina di imbrattare pareti bianche con il sangue. Il mio sogno non diventerà mai più realtà. Non c’è più tempo. Non ho più tempo per poter studiare e imparare e immaginare qualcosa di meraviglioso, per poter donare al mondo un po’ della bellezza che ho visto e mi è stata a sua volta regalata. Non potrò restituire niente, neanche un sorriso, ch’io di sorrisi non ne ho più per nessuno, neanche per me stessa. Ho solo una triste vita, fatta di tristi pensieri e di un corpo triste con la pelle raggrinzita e le cosce troppo stanche per poter correre nei parchi, come facevo una volta. E’ la condanna per noi vecchie, gettate via, perché non contiamo nulla e se contiamo lo dobbiamo solo al buon cuore di qualcuno che ci accoglie e respira con noi, insieme.
Io adesso vivo con un respiro a metà. L’ossigeno che arriva non è abbastanza, e mi sento avvolta da nubi grandi quanto le mie incertezze, senza che vi sia qualcuno che risponda ad una domanda diretta e chiara: perché?
Con mezzo respiro annaspo e vado avanti e preciso che non mi arrenderò facilmente ma tutto mi porta alla resa. Quel che mi chiedono: una resa incondizionata, accetta la tua condizione senza ribellarti, accetta la tua precarietà e il fatto che non hai nulla di tuo, né un tetto, né vitto, né un modo per realizzare sogni antichi. Mi chiedo se non fosse meglio quando le speranze erano ancora tali e i sogni sembravano quasi raggiungibili. L’età delle speranze è morta e io con essa.
Mi resta da descrivere uno stato che riguarderà presto solo infermiere attente e dottoresse critiche, tentando di aggiustare quello che in me si è rotto. Tentando di riportare l’altra metà del respiro in seno ai miei polmoni. E io urlerò che è tutto inutile, quel respiro è andato e pur sforzandomi non riesco a compierlo per intero. Mi spetterà un luogo in cui qualcuno dovrà cambiare un pannolone, se non mi infilzeranno col catetere per fare prima. Incontrerò medici annoiati e stanchi del turno di notte, quelli che ad ogni vecchia rispondono male pensando che quel dolore sia finto, lei inventa, l’ho sentito dire, ed era giovane, pensavo i giovani dottori avessero più pazienza, invece no. Perciò il mondo mi vedrà come spazzatura e io comincerò a puzzare allo stesso modo, di quell’odore stantio che emanano i vecchi, con la bava alla bocca e gli occhi chiusi, una mano per chiedere assistenza, e le parole che non vengono fuori. La bocca chiusa, sigillata, senza più neanche il mezzo respiro. Così si esaurirà anche il mio, non potrò parlare o canticchiare, non potrò produrre suoni che non siano vani lamenti.
Mi avessero chiesto in passato qual è l’età dell’incertezza avrei detto questa, quella attuale, ora che sono giovane e tutto deve ancora avvenire, chissà quando, chissà dove. Invece adesso conosco la risposta. L’età è adesso. i miei 56 anni che non servono a tramandare un cazzo, perché ho sprecato vita in passioni che hanno arricchito quelli che poi mi hanno abbandonata. Intanto io marcivo. Lo senti lì l’odore? Non senti? Posso avvicinarmi, se vuoi. Dovresti sentire la puzza, ora. È causa tua. Non posso più celarla coi profumi, quando la pelle è stanca si lamenta e quel lamento si può solo annusare e scansare.
Avevo in mente di scrivere un libercolo di saperi, da condividere con altre, quelli appresi e che mai ho potuto utilizzare. Non per me. Era già troppo tardi. Tardi quando capii come difendersi dai padri violenti o dai mariti stupratori o dalle famiglie disfunzionali. Tardi per tutto. Speravo di salvarne alcune, anche solo una, che non dovesse vivere quel che ho vissuto io. Invece non c’è tempo. Suonano alla porta della mia stanza di reclusione. È lui che vuole ancora testardamente essere assolto, come se io fossi un prete, per quello che mi ha fatto, per quel che mi farà. Il tempo scorre e scorrono le lacrime di chi ha imparato a piangere in silenzio. C’era il tempo in cui gridavo, ma se il respiro manca, non hai più diritto neanche a quello. Sono solo liquidi, salati, in superficie, che scorrono mentre la mia espressione è identica all’attimo in cui non soffrivo affatto.
Mi duole conversare con me stessa in questo modo privo di pudore. Dovrei fare attenzione a chi regalo confidenze sui liquidi che escono dalla mia carne, ma ormai il pudore è andato, l’intero abc dello sputtanamento è concluso. La dignità è andata e così vado anch’io, cercando di pensare a cosa mi divertiva in passato. Cos’era? Non ricordo. Forse ballare. Cantare o recitare. Scrivere, senz’altro, fare l’amore senza dubbio. E oggi cosa potrebbe mai divertirmi? Niente. Non trovo nulla che sia divertente. È un’isola priva di bellezza quella in cui mi trovo, e ciò che trovavo bello è già al largo, lo vedo da lontano, le lacrime tornano a scorrere. Salate, come il mare, quel mare che non vedo da non so quanto tempo e che mi manca sempre. Forse quello, il luogo in cui potevo respirare appieno. Ed oggi l’aria è torbida, i fumi delle macchine giungono fin dentro la prigione. Ma è meglio della stanza asettica in quel reparto psichiatrico.
C’era una donna, su al reparto, che si aggiustava sempre la camicia. Volevo dirle che era a posto, non una piega, nessuna macchia. Non ascoltava. Pensava solo ad aggiustare l’angolo, poi la manica, e mentre la guardavo pensavo diventerò così, un giorno. Mi manca solo un’altra tacca di dolore per raggiungere il massimo livello consentito in questo gioco. Catatonia, la chiamano. E non senti voci, non pronunci frasi, ti fissi su un punto e ti sforzi solo di vederlo immobile. L’immobilità è ciò che mi aspetta? Con questa domanda vi lascio, sognatori, oh voi che potete sognare ancora e sperare e respirare. Prendete tutta l’aria che c’è al mondo e fatela vostra, perché di certo incontrerete qualcuno che potrà rubarla. Non cedetela a nessun prezzo, a nessun costo, difendetela con ogni mezzo necessario, e piantate un calcio su ogni stronzo che turbi la quiete che a voi è destinata. Un calcio è poco. Dovessi concepire una difesa adotterei la descrizione accurata di ogni fatto e parlerei per ore ad alta voce su quel che lo stronzo vuole fare. Tessendogli attorno una tela di verità dalla quale nessuno mai potrà liberarlo. La verità è un’arma, usatela, sentitela vostra, percepitela e non fatevi ingannare, perché ad esser pazzi sono loro. Noi siamo le persone sane.
Vostra
Eretica Antonella
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