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La ragione dell’isolamento della bulimica

Anche oggi tra i contributi arrivati sulla pagina facebook di Abbatto i Muri per la Campagna #tuttacolpamia ce n’è uno che merita una riflessione, almeno da parte mia che ho lo stesso problema.

Se il cibo non fosse visto in termini ricattatori, non solo in una coppia, come la storia che ella racconta, ma anche e soprattutto in famiglia, la bulimica non avrebbe alcuna ragione per trincerarsi nell’isolamento più assoluto. In questa nazione dove il magna magna generale, festivo, domenicale, natalizio e pasquale è una sorta di compensazione per ogni altra carenza affettiva, è difficile per una persona che soffre di disturbi alimentari far parte di tutto questo o non farne parte senza che lei non nutra sensi di colpa.

Rifiutare la pasta asciutta fatta da mamma è una grave offesa per la mamma, rifiutare le seconde o terze porzioni, in special modo in famiglie come la mia, meridionale, in cui è indispensabile mangiare per venti ad ogni pasto, diventa un attentato alla solidità dell’armonia familiare. Io ricordo bene come mio padre mi schiaffeggiava se lasciavo un solo morso nel piatto. Ricordo come venivo presa in giro quando rifiutavo un secondo giro di pasta al forno. Come potrebbe una famiglia che difetta nell’attenzione per i figli, abbandonandoli a se stessi il più delle volte, dirsi soddisfatta del proprio lavoro se i figli non consumano tutte le razioni del rancio. E’ la guerra, ragazze, una sporca e lurida guerra.

Allora visto che il mondo ci tiene tanto a controllare chi come noi ha difficoltà ad approcciarsi al cibo sarebbe utile svelare i nostri problemi a tavola, in ogni circostanza. Ti invitano ad una cena familiare? Bene. Dunque dirai che sei bulimica e che mangerai tutto quanto ma dopo vomiterai in bagno e scusandoti per questo spiegherai anche che il cibo per te rappresenta una sostanza tossica dalla quale sei dipendente e si può smettere la dipendenza da qualunque cosa ma non del cibo che serve per sopravvivere. Dunque spiegherai, sorridendo, che ogni invito a cena equivale per te ad una tortura e che se vogliono che tu sia presente, nella tua interezza, dovranno accettare quella parte di te o non se ne fa niente. Vedrete che così smetteranno di invitarvi e forse, dico forse, vi lasceranno in pace.

Se le suore e i preti insistono coll’imporre alimentazione, tramite sondino gastronasale, perfino alle persone in coma vegetativo figuriamoci se non vi intrappoleranno in una sedia minacciando privazioni di altro tipo e punizioni se non finite tutto quello che sta nel piatto. E’ il ruolo dei buoni genitori comportarsi in questo modo ed è questo il motore che lega ogni riunione sociale: il cibo. Se una persona non ha il controllo di niente nella propria vita è comprensibile che voglia almeno avere il controllo di quello che ingurgita. E non sto dicendo che bisogna arrivare alla morte ma accettare un equilibrio che va addomesticato con l’ausilio di psicologi e nutrizionisti, invece che di psichiatri, così come ho visto fare nel reparto psichiatrico dolendomi per l’adolescente legata perché voleva strapparsi il soldino dal naso. Tutto questo andrebbe compensato con una sana terapia familiare, coinvolgendo tutte le parti che sono addolorate per la persona affetta da disturbi alimentari. La forzatura o il ricatto è l’ultima cosa da fare se stai per morire diversamente diventa solo violenza spicciola e quella violenza traumatica non ti convincerà a mangiare o a non abbuffarti ma ti farà restare convinta del fatto che solo se tu hai il controllo tutto andrà bene.

D’altro canto i trattamenti per i disturbi alimentari, in salsa psichiatrica, non ti offrono nessuna alternativa. Quando chiedi: perché dovrei vivere mangiando meglio non sanno neppure cosa risponderti. Quello che dichiarano è che sei malata e in quanto tale sei soggetta ad un trattamento che è l’unico che ti offrono. Non esiste una campagna di informazione nelle scuole, per esempio, che insegni come trattare le persone affette da questi disturbi e non esiste una campagna antisessista che condanni il bodyshaming che viene profuso a piene mani da chiunque ogni volta che tu posti una foto sui social. Se l’opinione degli altri influenza così tanto la percezione di te stessa l’unica cosa che ti resta da fare, l’unica scelta possibile che hai, è quella di cercare di adeguarti per piacere agli altri e se gli altri ti vogliono magra tu dovrai dimagrire anche se il tuo corpo non somiglierà mai a quello di una modella alta un metro e novanta e magra 45 chili.

Quindi cominciamo con il dire che la responsabilità dell’isolamento di una persona affetta da disturbi alimentari non è della persona stessa. Che il disagio che lei prova è a volte inferiore al disagio di chi ti sta accanto e ti colpevolizza per ciò che sei. Cominciamo con il dire che è una responsabilità sociale e a trattarla in termini preventivi in quanto tale senza inutili pietismi nei confronti della persona malata che di responsabilità per se stessa se ne assume già fin troppa. Cominciamo con il dire che in questo mondo fatto per bellezze femminili che durano il tempo che intercorre dall’adolescenza alle prime gravidanze si richiede alle donne una fatica immane per mantenere i corpi giovani, snelli, senza una smagliatura, attraenti perfino oltre la menopausa. Esiste un mercato della cosmetica e della chirurgia plastica che specula su questo e non chiede mai alle donne a cosa corrisponda il nostro soggetto desiderante ma ci impone un modello estetico che ti invoglia a stare in palestra per tre ore invece che leggere un buon libro, a gonfiare le labbra come canotti invece che curare i denti per avere una masticazione ottimale anche quando hai settanta anni.

Insomma, la bulimica si isola, si vergogna, si sente in colpa, è ricattabile, non riesce neppure a spogliarsi di fronte all’uomo o alla donna che desidera, rinuncia ai propri desideri e alla sessualità e tutto questo dipende da una moltitudine di fattori e dalla sottovalutazione del problema. In una coppia ci sono tante cose che si possono fare insieme che non comprendono necessariamente il consumo di un pasto. Basta solo volerlo e cercare di favorire la guarigione di chi soffre di disturbi alimentari senza obbligarla a fare nulla che ella non voglia. Altrimenti non siamo lontani dall’applicare tortura nelle relazioni sociali. Dunque: c’è ancora qualcuno che, per esempio, voglia invitare a cena me? Io, Strega, verrò. A vostro rischio e pericolo.

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