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Cronache postpsichiatriche: rinunciare all’amore

Appunti per la mia autobiografia.

In un momento di grande fragilità, dopo aver scoperto della mia malattia, dopo aver subito due interventi ed essermi più o meno ripresa, io e i miei farmaci eravamo una cosa sola. Dovevo portarli con me ovunque, dovevo fare attenzione agli effetti collaterali mentre mi esercitavo a pensare al modo migliore per togliermi di mezzo quando le cose si sarebbero fatte più difficili. Corda per impedire il respiro, vetro per ferirmi, overdose per dormire, massima altezza per sfidare le mie vertigini assicurandomi di non procurarmi una semplice tetraplegia. Pensieri felici, senza dubbio, e nel frattempo ascoltavo le storie delle altre che in un modo o nell’altro mi hanno tenuta in vita. Se queste donne, tante donne, possono sopravvivere al dolore che altri hanno loro inferto è mio dovere continuare a esistere. Ho ascoltato le storie di donne lacerate, massacrate, violentate, picchiate a sangue, rese disabili dai maltrattamenti, impoverite nei sentimenti per la sfiducia che provavano nel prossimo. Ho ascoltato storie di donne piegate dal dolore di malattie non riconosciute o trattate come pezzi di carne senza vita mentre andavano a partorire, donne coraggiose, che sapevano nominare quel dolore e lo raccontavano ad altre affinché quelle altre potessero riconoscerlo e rivendicare attenzione. Ho sentito mille verità e mille dubbi, tante incoerenze e contraddizioni e tutto questo realizza quell’insieme favoloso che compone le donne.

Mentre ascoltavo e tentavo di prendermi cura di loro, rispondendo con delicatezza, misurando le parole da usare, restando loro vicina se ne avevano bisogno, segnalando luoghi cui rivolgersi o semplicemente dicendo “io ci sono”, una donna si avvicinò a me per chiedermi “ma tu, come stai…. ti prendi cura di tutte ma chi si prende cura di te”. E fu lei a lasciarmi senza parole, perché non potevo dire di che soffrivo, non volevo ancora confessare la mia vergogna, eppure, sebbene a distanza, lei capiva che io avevo bisogno di aiuto, di tenerezza. Parlammo, del più e del meno, di lei e di me. Mi innamorai. Di un amore puro, senza aspettarmi niente. Ma è così difficile trovare qualcuno che ti veda, tra le tante frottole e le performance pubbliche. Ebbene lei mi vide, scopriva le mie fragilità, si incazzava ogni volta che qualcuno mi dava addosso senza una ragione e poi foraggiava la mia autostima. La vidi, rimasi con lei, godendo delle sue attenzioni, amandola per quel che sapevo o potevo fare, sebbene io fossi rinchiusa in questo cubo stretto di materia depressiva. L’ho amata e mi ha amato. Mi sono sentita amata come mai prima di allora. Un amore fatto di passioni comuni, di incoraggiamenti reciproci, della bellezza delle idee partorite da entrambi. Ho amato la sua forza, la sua indipendenza, la sua tenacia, la sua determinazione, il suo gusto per le cose semplici e la ascoltavo mentre apprendevo nuovi modi di vivere e nuove esperienze. I miei sonni con lei erano sereni. Se c’era un brivido mi abbracciava, un accenno di incubo e lei mi parlava piano per dirmi “sono qui”. E’ stata la mia culla, un nuovo luogo in cui mettere radici, ho accarezzato il suo corpo e ne ho appreso il calore, la bellezza, mentre lei ascoltava con meraviglia ogni mia parola, ogni mio racconto. Sapeva tutto di me, salvo della depressione, anche se penso che l’abbia capito e per discrezione non l’abbia detto, non finché non fossi stata io stessa a dirlo. Ho desiderato di invecchiare con lei e sarei rimasta, l’avrei amata fino alla fine dei miei giorni, se non mi considerassi un peso. Cosa avrei potuto darle? Come avrei potuto essere necessaria quando sarebbe stata lei ad aver bisogno del mio aiuto. Come aiutarla nel pieno dei miei silenzi, quando la depressione mi metteva dinanzi un muro che avrei voluto prendere a calci se solo avessi potuto. Come restituirle tenerezza se non ero in grado di badare a me stessa. Per lei avrei lasciato il mio compagno, avrei ricominciato una nuova vita, avrei progettato qualcosa di nuovo, insieme. Con il rimpianto e tanta codardia ho abbandonato quello che per me era un sogno e sono tornata all’ovile, in una situazione priva di amore, in cui il mio peso era vissuto per dovere, senza una carezza, senza attenzioni, senza incoraggiamenti, senza pillole per la mia autostima.

Sono tornata ad essere sola, in una casa che già mi vedeva come estranea, in un luogo in cui dormivo da sola, con qualcuno che pensava di lasciarmi perché di me in fondo non apprezzava niente. Il compagno che era brava persona e brav’uomo, che non leggeva quello che scrivevo, che non si interessava a ciò che facevo né gli dava valore, che sperava solo che io un giorno guarissi per poterlo aiutare finanziariamente. Quando gli dicevo dei miei risultati lui sorrideva poi andava per la sua strada, convinto del fatto che la vita è un’altra cosa e che io non lo soddisfacessi affatto, in nessuna delle cose che desiderava. In tutto questo mi confortava l’idea di quell’amore vissuto per un attimo, con una persona che conosceva il mio valore e che mai mi aveva fatto sentire un peso.

Ho sempre pensato che se oggi ci fossero i manicomi il mio compagno, in buonafede certo, avrebbe potuto rinchiudermi lì, con la sua estrema fiducia nella psichiatria e nei farmaci, con la spinta ad affidarmi a soluzioni che non erano le mie. Tutto pur di continuare a vivere la sua vita così come l’aveva progettata, nella città che lui aveva scelto e negli obiettivi che si era dato. Gli dicevo che se ci fossimo trasferiti in un posto con il sole e il mare sarei stata meglio, anni prima, quando ero in forze e giovane abbastanza gli dicevo di andare all’estero e cercare lavoro lì. Ma la staticità è il suo punto di forza. Perfino cambiare casa in affitto è stata una mia scelta. Lui non avrebbe voluto o saputo farlo. A lui piace restare fermo. Io amo stare in movimento. Così in qualche modo, senza che lui ne abbia responsabilità, lui mi ha uccisa, lentamente. A dir la verità mi sono uccisa da sola, per la mia paura dell’abbandono, perché non volevo lasciarlo, quando tra noi le cose andavano bene. Volevo stare con lui, speravo si potesse risolvere tutto e io, immigrata, in una città che odio, avrei dovuto trovare la forza di andarmene, da sola, come hanno fatto in tante, andare a cercare un lavoro in un’altra città, spostarmi, lasciarlo. Finirla, prima che questa diventasse la mia tomba.

Penso ancora alla donna che ho amato moltissimo, non so se con lei poteva essere diverso, migliore, non mi piacciono i paragoni perché lei è lei e merita un’amore che non sia né una seconda occasione né una fuga. ;Ma se la rivedessi, se oggi la incontrassi ancora le direi semplicemente “sono qui, sono depressa, mi sto curando e ti amo”. E se non mi vuole pazienza. Continuerei comunque a vivere in una stanza tutta per me a scrivere di tutto, di me, del suo tenero tocco della mano nelle notti insonni, di lei che ho perduto prima ancora di conoscerla davvero.

Eretica Antonella

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