Appunti per la mia autobiografia.
Quando per la prima volta mi presentai davanti ad uno psichiatra, per i disturbi alimentari, lui diagnosticò la depressione maggiore. Ero vivace, lucida, uscivo, avevo contatti sociali e ancora potevo vantarmi di godere di un pezzetto di vita pubblica. Quello che non avevo era un lavoro.Non avevo neppure più voglia di cercarlo. Mi ero semplicemente stancata di tutto. La precarietà mi stava uccidendo. Lo psichiatra, un cognitivista comportamentale, mi spiegò che non importa come vadano le cose. Importante è come le affrontiamo. In parole povere se cambi il pensiero cambi i comportamenti. Non mi prescrisse farmaci ma avevo l’obbligo di compilare un diario alimentare e delle mie abitudini. Mangiare a tavola invece che sul divano pare cambiasse molte cose. Abbuffarmi non era una cosa buona, mangiare in modo equilibrato mi avrebbe infuso nuove energie. Ma io restavo sempre una precaria.
Con quello psichiatra discutemmo moltissimo sul gatto che la psichiatria era stata concepita come mezzo di controllo sociale e che suppliva le carenze di un welfare catastrofico, con soluzioni istituzionali catastrofiche che portavano la gente come me alla depressione. Chiesi: quanta gente disoccupata si rivolge a voi? Molti, rispose. Dunque era vero. La disoccupazione portava alla depressione. Non corrispondere ad uno status sociale riconosciuto in termini di attivismo e utilità economica ti fa sentire di merda. Se questa mentalità ti viene gettata addosso come pietre tutti i giorni da un partner che piange la sfiga che gli è capitata ad avere una moglie senza lavoro fisso è ancora peggio. Io non sapevo immaginarmi felice nel ruolo della casalinga, né potevamo permettercelo, dunque bisognava stringere la cinghia il più possibile e negli anni ho consumato pantaloni fino a bucarli, calzini fino all’ultimo degli sfilacciamenti, scarpe fino al distacco totale dalla base. Per fortuna non ero e non sono il tipo di moglie che chiede di andare dal parrucchiere ogni sabato, di comprare capi di abbigliamento nuovi ad ogni stagione e cosmetici costosi. Sostanzialmente a parte le spese per l’affitto e le bollette io costavo davvero molto poco.
Ma questo non bastava. Se io potevo permettermi il lusso di sedere al computer e scrivere o darmi alla lettura lui non poteva farlo perché lavorava tutte le ore possibili per prendere gli straordinari e dunque eccomi, il peso morto, che non sa neppure fare la casalinga come si deve, che non è felice di preparare pranzi e cene ai colleghi di lavoro e che ha una vita di contatti sociali con altri poveracci politicizzati come me, idealisti che pensano ad un mondo futuro mentre qualcuno gli prepara un piatto in tavola per nutrirli. Così lui pensava mentre gli parlavo delle grandi cose che con questa o quella manifestazione intendevamo ottenere. In più ho sempre avuto la testa troppo in aria, nel senso che pensavo a cose da scrivere mentre lui pagava le bollette. Avevo proprio bisogno di una riaggiustatina. Con questo spirito di rivolta interiore andavo dallo psichiatra compilando celermente il mio quaderno alimentare e raccontandogli tutti i cazzi miei. Fu lui però che ad un certo punto mi parlò del fatto che a me mancasse una base sicura, la sicurezza data dall’attenzione e l’affetto dei genitori. Se mi abbuffavo voleva dire che stavo colmando qualcosa. Bisogno di amore, Anestesia per il dolore. E io chiedevo: Sì, ma il lavoro? Un reddito? La casa?
Quando durante le sedute si rese conto che la depressione stava diventando più grave mi prescrisse un farmaco totalmente sbagliato. Ma si sa che i farmaci vengono sperimentati sui pazienti e poi avvalorati dalla teoria. O almeno credo. In quel caso fu così. Mi prescrisse un serotoninergico che nel giro di pochi giorni, a parte farmi sembrare fatta di cocaina, eccitata come non mai, mi causò un’emorraggia ad un occhio. Farmaco sospeso, livido rientrato. Ma tu non mi avevi detto che soffri di ansia e attacchi di panico. Disse lui. Non me l’ha chiesto. E insomma Dopo quell’esperienza persi fiducia, rinfoderai i miei quaderni, tornai a cercare uno psichiatra dopo qualche anno, due per la precisione. Nella mia vita non era cambiato nulla salvo il fatto che cresceva il mio senso di colpa nei confronti di mio marito. Un senso di colpa spaventoso. Mi sentivo totalmente inutile. Crescevano le mie ideazioni suicidarie in una direzione precisa. Volevo liberare mio marito da questo peso. La nuova psichiatra mi prescrisse dei farmaci per la depressione. Io tornai a casa, scrissi una specie di testamento biologico e una lettera affinché nessuno potesse dare a mio marito la responsabilità del fatto, frullai le pillole e le bevvi in un solo sorso. Mio marito se ne rese conto il giorno dopo perché non mi svegliavo. Era il 2008 e mi portarono al reparto di tossicologia, Careggi. Non avevo mutande, ero nuda, vedevo solo tubi e non riuscivo a capire. Quando venne la psichiatra a chiedere dissi che volevo morire ed ero talmente incazzata per non esserci riuscita da mandar fuori urlando tutti quanti. In realtà era poca roba, un sovradosaggio. Se vendessero pillole in grado di farti fuori non ci sarebbe più mercato e fallirebbe anche la psichiatria. I potenziali suicidi sono talmente tanti che non li contano neanche più. In reparto incontravo gente che contava i tentativi, io tre, io quattro, io due, io uno solo. La settimana dopo mi comunicavano che una c’era riuscita. La prima domanda era: chissà come avrà fatto.
Comunicazioni di pazzi tra pazzi, che volete farci. Forse siamo gli unici a credere davvero che oltre questa vita ci sia dell’altro, più interessante e migliore. Il reparto psichiatrico di careggi è famoso perché si dedica con grande attenzione ai disturbi alimentari. I loro day hospital sono affollatissimi. Si va alle otto del mattino e si va via dopo la cena. Ed è una grande festa quotidiana tra anoressiche e bulimiche che piangono perché l’infermiera e la dottoressa, la nutrizionista, ha assegnato due grammi di carote in più. Serve a poco perché quelle due carote spariscono, non si sa come, con la complicità di altri presenti, malati anch’essi. Una sorta di solidarietà tra pazzi. Tra sondini nasogastrici e inseguimenti delle bulimiche per impedire loro che vomitassero in bagno trascorrevano le giornate delle infermiere in un tempo in cui ancora non c’era il lockdown, si accettavano le visite dei parenti e le porte erano semi aperte, anche se con un campanello cui rispondeva l’infermiere di turno. In quel reparto mi sentivo a casa, portavo il mio computer, potevo scrivere i miei articoli, partecipavo ad indagini statistiche e per ragioni di ricerca, socializzavo e potevo anche fare passeggiate fuori, fino al giardino di fronte. Tutto andava a meraviglia fino a che la mia psichiatra non finì la specializzazione, delegò un’altra per le mie cure, mi lasciò con un mare di prescrizioni di farmaci e io non volendo ricominciare tutto da capo non riuscii più ad andare.
Smisi le mie polemiche sulla psichiatria del controllo sociale, smisi di citare Foucault sull’origine della psichiatria, cercai di approfondire il più possibile tutto il materiale rintracciato sulla mia condizione, ma rimasi comunque a casa. Il mio tragitto abituale era casa e farmacia, per prendere i farmaci, se stavo meglio partecipavo a qualche evento pubblico, riuscii perfino a scrivere due libri, con l’aiuto delle amiche che rassettarono con editing e grafica, e pianificavo un nuovo progetto: Abbatto I Muri. Anno 2012.
Eretica Antonella
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‘Abbatto i muri’ is a blog and an online platform run by a volunteer called Eretica. It aims to raise awareness of Intersectional feminism. It also tries to support the LGBT community in Italy and victims of domestic violence and many other issues which occur in Italy.
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