Appunti per la mia autobiografia.
La mia vita professionale è fatta di tanti se. Se avessi fatto questo. Se avessi fatto quello. Si conclude con un “non piangere sul latte versato” e il risultato è che sono sempre stata una precaria. Non ho completato il percorso formativo che preferivo perché aver partorito ha fatto slittare tutti i possibili programmi. Ma la scelta è stata mia e dunque, ancora, precaria. Qualche anno prima della mia età lavorativa si sistemavano un po’ tutti entrando a far parte della grande famiglia istituzionale. Procedevano attraverso una porticina secondaria e ne uscivano dalla porta principale. Impiegati al Comune, alla Provincia, impiegati statali di ogni tipo, impiegati di Banca. Poi arrivarono i contratti temporanei e la mia generazione ne fece le spese. Non perché volessi solo lavori stabili ma almeno un lavorino tranquillo ogni tanto non sarebbe stato male. Così lavoravo tre mesi qui e sei mesi là, un anno altrove e due anni in quell’altro posto. A Firenze non è stato possibile mettere a frutto le mie esperienze lavorative. Il mio curriculum andava a fuoco ogni volta che lo consegnavo. Così mi sembrava. Avevo esperienza per lavorare a supporto di consiglieri regionali ma qui ciascuno aveva il suo seguito e quello è un lavoro che fai perché ti conoscono e si fidano di te. Avevo esperienza come libraia ma non ero abbastanza giovane, o abbastanza qualificata, o troppo qualificata o non avevo la taglia giusta per indossare la divisa d’ordinanza. Ho collaborato con amministrazioni, ho organizzato eventi, ho fatto la Pr, l’addetto stampa, ma poi, senza quel maledetto tesserino da giornalista non andavo da nessuna parte. Dunque la cameriera, finché le ossa hanno retto. Ho lavorato a progetti nel terzo settore, ho collaborato al censimento di imprese commerciali. Poi, ad un certo punto, seduta sul divano, cominciai a contemplare la mia libreria piena di libri e vedevo il nulla.
Pensavo: ho lavorato tanto in vita mia e non avrò mai neppure un soldo di pensione. So fare così tante cose ma nessuno ha bisogno di me e più vado avanti peggio sarà. Così cominciai con colloqui di ogni tipo, curriculum adeguati, senza o con quella tale qualifica per non spaventarli o per invogliarli, e mi ritrovavo una concorrenza spietata fatta di ragazze giovanissime che conoscevano almeno due lingue, avevano una laurea e due master. Mi presentai al colloquio per inserimento dati, c’era da comporre un database, e mi presero. Non potevo crederci, infatti dopo un mese mi chiesero di dimettermi o mi avrebbero licenziato. Il lavoro richiesto nel frattempo l’avevo completato. Non gli servivo più. Lavorai con migranti, in favore di migranti, e mi ritrovai a dover fare vertenza con il sindacato perché l’associazione umanitaria che mi aveva assunta non era poi così tanto umanitaria. E dunque altri colloqui, altra diffusione di curriculum. Chilometri e chilometri per sentirmi dire che potevo frequentare un corso a pagamento o che si richiedeva una segretaria ma in realtà serviva qualcosa di diverso. Diverso come? Diverso, diciamo in posizione orizzontale. Ritornai nella mia postazione sul divano, e magicamente oltre la libreria e oltre la parete vedevo un panorama di candide casalinghe che lavavano i panni al fiume. Dovevo diventare come mia madre. ma sì, dai, posso farcela. Fare il bucato, preparare pranzo e cena, lavare i pavimenti, passare la cera, spolverare, rimettere in ordine. E poi?
Mi ritrovavo a invidiare la casalinghitudine materna, con il babbo che portava il pane in casa, il suo pugno sul tavolo da pranzo e le botte ai figli. No, meglio di no. Il mio compagno non poteva, poi, permettersi una donna di servizio a tempo pieno. Servivano due stipendi per progettare qualcosa. Allora altri colloqui, altri curriculum, mi presentai per fare le pulizie, l’imprenditore disse “non è lavoro per lei”. Ma come, perché? Giuro che so pulire, faccio letteralmente brillare i cessi. Mia madre mi ha addestrata a fare le pulizie sin da bambina. Lavavo i piatti e non avevo neppure sette anni. Ma che volete di più? L’aspetto, il mio aspetto non era rassicurante. Sapete quando vi capita di incontrare il datore di lavoro filosofo che vi legge dentro e prevede anche il futuro? Un altro, stesso settore, disse: “lei vuole di più dalla vita, non si fermerà molto e appena troverà un altro lavoro mi lascerà con un vuoto…”. Fare le pulizie non era il desiderio più grande della mia vita ma se mi avessero assunta l’avrei fatto bene. Invece no. Altro lavoro a progetto, facevo da passacarte tra un assessorato e il centro per l’impiego. Presso il Centro c’era lo sportello “Donna” e mi venne la brutta idea di chiedere se c’era qualcosa di interessante per quelle come me. La ragazza mi mostrò ventimila depliant, coloratissimi, sullo sviluppo d’impresa, su prestiti agevolati alle imprese, corsi su come si mette su un’impresa e tutto ciò era destinato alle donne. Chiesi: ma se non ho un soldo e devo lavorare per vivere come faccio ad aprire un’impresa? E’ questo che fa lo sportello donna? Sì. Bene, grazie.
Sul finire di quell’incarico cominciai a perdere colpi. Non riuscivo più a muovere un passo oltre casa. Tramite il medico spiegai la situazione e un responsabile venne a prendere a casa mia il lavoro che avevo ultimato. Mi ero persa. Restavo su quel divano, sguardo oltre la libreria, ancora oltre le donne che restavano a piedi nudi dentro i ruscelli per lavare i panni. Vedevo mio padre che mi urlava “fallita!”. Non sapevo spiegare quello che mi stava succedendo ma sapevo di dover chiedere scusa al mio compagno. Scusa perché non ho un lavoro, non posso aiutarti, non riesco a concludere niente, sono una fallita. Lui diceva di aver fiducia in me e che ce l’avrei fatta e tante aspettative e tanta pressione interiore mi mettevano ancora più a disagio. Volevo solo scrivere. Beh scrivi, lui disse. Riposati. E quel riposo diventò una tortura fatta di dipendenza economica e di incapacità a concretizzare progetti. Potevo rivendicare un reddito di esistenza, di cittadinanza, qualunque cosa, ma dentro di me c’era sempre la voce di mio padre che diceva che ero stata io incapace, a non saper fare niente, a non aver saputo raggiungere un solo obiettivo concreto. Fallita. Fallita. FALLITA!
Quando il mio compagno mi accompagnava dal medico, dalla psichiatra, da chiunque, vedevo che in lui si accendeva una speranza. Forse me la restituiscono com’era prima. Forse le infonderanno un po’ di voglia di fare. Forse la renderanno produttiva, capace, felice. FORSE, UN CAZZO!
Lui non ha mai detto o fatto qualcosa in malafede. Sperava semplicemente che noi avessimo una vita normale. Ma più le sue aspettative aumentavano e più io stavo male. Più la contraddizione in me diventava irrisolvibile. In fondo sono una femminista, donna che aspira a essere indipendente e poi si fa mantenere dal marito. Orribile, orribile, orribile.
Quando ho detto al mio compagno queste cose lui mi ha accusato di riflettere in lui i miei pregiudizi. Lui voleva solo che io stessi meglio e che riuscissimo ad avere una buona vita insieme. Aveva bisogno di aiuto ma non a tutti i costi. Non so perché ma non gli ho mai definitivamente creduto. Se gli credessi vorrebbe dire che sono io quella che conserva un rancore assoluto nei confronti di una madre che faceva lavori di casa e chiedeva l’elemosina a mio padre per andare a fare la spesa. Se gli credessi vorrebbe dire che sono io che ho un’idea sbagliata di quel che è produttivo. Ho interiorizzato un’idea capitalista, consumistica, di produttività, come in una catena di montaggio, ad avvitare grossi tubi, per far marciare bene la macchina.
In questi anni io e il mio compagno abbiamo condiviso il paradiso e l’inferno. Se mi consegnava agli psichiatri perché mi aggiustassero ho dimostrato che non sono una bambola rotta. Nessuno può trasformarmi in qualcosa che non sono. Se mi accompagnava sperando solo che io stessi meglio mi mancava un contraddittorio. Anzi, ne avevo uno dentro di me: mio padre. Fatti aggiustare, sei rotta, sei sbagliata, sei fallita, fallita, FALLITA!
Però, caro papà, potrò anche guarire dalla depressione ma questo non vuol dire che diventerò ciò che vuoi tu. Hai capito? Hai capito, padre?
Eretica Antonella
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1 pensiero su “Cronache postpsichiatriche: precarietà e dipendenza economica”