Antiautoritarismo, Pensieri Liberi, Personale/Politico, Precarietà, R-Esistenze

Cronache postpsichiatriche: contraddizioni politiche e dilemmi privati

Appunti per la mia autobiografia.

Gli anni ’90 fino ai primi anni 2000 non furono per me soltanto ricchi di cambiamenti sul piano pubblico. Cambiò radicalmente anche il mio modo di espormi alla vita pubblica. Da persona timida e piena di insicurezze mi improvvisai trascinatrice sociale. Quando salii sul palco di un comizio la prima volta le gambe tremavano ma poi tutto fu più semplice. Ero in grado di parlare di mafia in luoghi in cui la mafia era presente. Facevo nomi e descrivevo situazioni rischiose da un microfono rivolto ad una piazza di paese completamente vuota, con guardoni agli angoli delle strade e gente timorosa di esporsi che ascoltava dietro le finestre chiuse. Ero giovanissima e mi portavano ovunque per farmi esprimere la mia opinione sulle cose. Come un simbolo di rinnovamento, qualcuno mi definiva “eroina”. In realtà nessuno sapeva che ero cresciuta in un contesto familiare che mi terrorizzava e che affrontare a muso duro mafiosi e politici corrotti non era nulla in confronto. Avevo rischiato di morire per mano di mio padre e poi per mano del mio ex marito. Pensavo di aver già vinto la mia guerra e che nulla avrebbe potuto farmi ancora del male.

Mi scivolavano addosso le parole dei vicini di casa che raccoglievano firme affinché io andassi via, perché dopo aver ricevuto minacce concrete, l’incendio, i proiettili, pensavano rappresentassi un rischio anche per loro. Non mi curavo delle dicerie di gente in malafede che non avendo prove di una mia possibile promiscuità eterosessuale mi chiamavano “la lesbica”. Se non temi la mafia, resti a testa alta quando i boss ti passano accanto e continui a consegnare volantini alla gente ovviamente doveva esserci qualcosa che in me non andava. Mio padre in quelle circostanze mi fu vicino, solidarizzò, perché lui, per l’appunto, era fatto così. Mi dava della troia in privato ma rispetto alle mie posizioni politiche mostrava l’orgoglio di un padre che ritiene di aver insegnato alla figlia i valori giusti. Mia madre, al solito, continuava a dirmi di farmi i cazzi miei. Quello che io non sapevo e che compresi più tardi era il fatto che la mia figura venisse usata da chi sulla mia ingenuità politica costruiva posizionamenti politici dei quali mi interessava poco. Quando smisi di farmi usare e cominciai a maturare idee complesse su tutto quello che stava succedendo nel giro di poco tempo rimasi senza supporto politico. Le mie spalle si reggevano da sole. Non ero più una ragazzina che lasciava la gente in platea a bocca aperta per lo stupore. Ero diventata la concorrenza, una persona che poteva costruire una identità politica nuova al di là dei leader. Una loro pari. E come loro pari smisi di lasciarmi usare, non accettai candidature di ripiego per portare voti a destra e a manca e quando, invitata ad una conferenza di persone che si occupavano di antimafia, mi rivolsi ai magistrati presenti ricordando loro che le forse dell’ordine usavano le lotte contro la mafia per legittimare la repressione che veniva realizzata ai danni di persone deboli, persone senza casa che venivano sgomberate con la forza, manifestanti braccati per le vie delle città in cui sfilavano, e poi il G8 di Genova, nessuno seppe darmi una risposta.

Un po’ come quando le forze dell’ordine si vantano di essere utili nella lotta contro la violenza sulle donne ma il giorno dopo vanno in una piazza in cui quelle stesse donne stanno manifestando e le maltrattano con i manganelli. Era una contraddizione o un preciso sistema sul quale si reggeva l’intera struttura istituzionale? La mia risposta? E’ un sistema paternalista che dice di proteggerti ma se non ti comporti bene ti manganella. Come si poteva giustificare altrimenti ogni riforma legislativa votata alla sicurezza se il fine di quella riforma è il controllo sociale? Dopo Genova nel 2001 poco tempo dopo partecipai ad una manifestazione in Val Susa e l’atteggiamento delle forze dell’ordine era esattamente lo stesso. Repressione a garanzia di tutti meno che della gente comune, di chi tentava di proteggere le proprie case e l’ambiente. Fu come svegliarmi all’improvviso e cercavo un equilibrio tra le esperienze fatte, tutte le cose delle quali ero stata testimone, tutto ciò che sapevo. Darmi all’attivismo extraparlamentare per me fu la risposta e fu anche il momento per ripensare a me, a quello che mi era successo.

Mio padre invecchiava ma restava sempre uguale. Diventava più paranoico. Mentre facevo attività politica mi sentivo gratificata dal fatto di poter far emergere un lato di me, quello che pensa e progetta il futuro. Non vivevo la maternità se non con grandi sensi di colpa. Mia madre faceva le mie veci e io continuavo a immaginare un momento in cui sarei stata economicamente indipendente abbastanza da liberarla da quel ruolo per riassumerlo in ogni senso. Tutti gli uomini dediti alla vita pubblica che conoscevo avevano mogli che badavano ai figli. Loro non dovevano preoccuparsene. Per me era diverso. Io rincorrevo l’indipendenza e tentavo di realizzare i miei sogni. Ero, sono stata, sarò sempre una cattiva madre. Lontana, pendolare, fino al momento in cui lasciai la politica attiva e passai al camerierato come principale fonte di guadagno. Prole con me e ogni cosa sembrava rimettersi al proprio posto. In quel periodo subivo però il controllo dei miei. Mio padre venne a trovarmi per dirmi che fare la cameriera non era una cosa buona. Mia madre si contendeva il ruolo materno con metodi subdoli. Dar soldi quando avevo proibito di farlo, consentire cose che non dovevano essere fatte. La relazione era già abbastanza piena di tensione senza bisogno di interferenze esterne. Cercavo di dare delle regole, ma forse non ne avevo il diritto. Non ne ero capace. Quando lo stress arrivava al limite diventavo violenta, perché una vittima di violenza tende a comportarsi allo stesso modo. Mi scoprivo posseduta dall’anima paterna e mi odiavo. Qualche tempo dopo mia sorella si aggravò e fu necessario per lei trasferirsi da me. Dopo un po’ arrivò mia madre, con il suo gatto, segno che sarebbe rimasta a lungo. Iniziò a trasformare casa mia per farla sua, prese pieno possesso della cucina, a me non restava che starmene in camera mia, andare al lavoro, poi tornare in camera mia. Il mio ruolo materno fu totalmente distrutto. Mia madre replicava tutto ciò che faceva in famiglia. Se lì seduceva i figli con pantomime atte a proteggerci dall’orco cattivo, mio padre, in questo caso trasformò me nell’orco cattivo. Non servì cambiare casa. Non servì nulla. Lei era più forte. I suoi metodi seducenti erano più forti.

Io e mio padre, in tutto ciò, diventammo gli esclusi del nucleo familiare. Nemici per la pelle e uniti, allo stesso tempo, dal sentirci soli, non più membri di una famiglia. Di questo parlavamo spesso. D’altro canto per me non cambiava molto. Io quella famiglia non l’avevo mai avuta. Ero la pecora nera, il sangue pazzo, eccetera. Solo che erano riusciti a fagocitare in quel clan familista anche la mia prole. Non solo. Quando trovai lavoro a Firenze e dovetti trasferirmi, prima per qualche mese e poi, conosciuto il mio attuale quasi ex coniuge, definitivamente, diedi una scelta. Trovai casa in affitto con una camera in più, tutto era programmato ma non si trattava di un pacco postale da spostare come volevo. Una persona ha il diritto di scegliere il luogo in cui vivere, in special modo se si sente più al sicuro con la nonna. Le telefonate poi diventarono sempre più ambigue. Mediava mia madre. In parecchi casi chiamava per dirmi di far sentire la mia autorità per limitarne le azioni. E io, rassegnata e impotente, rispondevo che era lei che faceva le regole e io non ero l’orco cattivo. Non poteva pretendere di apparire sempre come la buona fatina della famiglia. Si inventasse lei il modo di fare cazziatoni ad una persona oramai grande, maggiorenne, dato che prima aveva fatto di tutto per annientare ai suoi occhi la mia autorevolezza. E su questo non posso dire altro perché non parlo a nome di chi non mi vede neppure come madre. E’ una ferita aperta, enorme, ma me ne assumo tutta la responsabilità. Non sono stata capace, né risoluta, abbastanza da cambiare le cose. Mi sono fatta mettere facilmente all’angolo, mi sono fatta odiare senza tentare di recuperare un rapporto che non c’è. E nel frattempo sprofondavo nella mia depressione.

Prima che io fossi espropriata da mia madre della mia esistenza però accadde anche altro. Disgraziatamente mi innamorai, follemente, di qualcuno che non mi amava. restammo in contatto per un anno e poi lui passò ad altro o ad un’altra. L’abbandono, ripetuto, feroce, risvegliò in me tutte le vecchie paure. Era un momento di vulnerabilità, non avevo certezze, nessun lavoro stabile e i problemi familiari mi facevano sentire sempre in colpa. Per far parte di quel nucleo familiare avrei dovuto assolvere al ruolo di cura nei confronti di mia sorella e di mia madre ed era una cosa che non potevo più fare. Troppe volte avevo scoperto il gluteo per ricevere una puntura, da piccola, quando venivano per praticarla a mia sorella. Pensavo fosse quello l’unico modo di essere amata. Se non ero malata non c’era amore per me, solo richieste di cura e sensi di colpa. Quell’uomo mi trovò in questo stato e quando mi lasciò io rimasi sola, con me stessa, senza sapere, ancora una volta da che parte cominciare.

In questa storia, giusto per chiarire, non c’è una vittima. Mia sorella non voleva quello che le è successo. Mia madre certamente non ha scelto il suo destino e io non ho mai potuto dire a loro, con chiarezza, che la libertà di una donna si fonda sulla schiavitù di un’altra. Ne ero consapevole. In una situazione di bisogno, che ci siano familiari ammalati di mezzo o figli da accudire, una donna cede il passo ad un’altra donna. Problema era che mia madre in quel ruolo si era ritagliata uno status sociale, aveva abbandonato il marito per stare con la figlia, aveva sminuito e vanificato i miei sforzi di maternità, perché lei sentiva di essere migliore. La migliore delle madri possibile. Io, invece, sono la peggiore delle madri, la peggiore delle sorelle, la peggiore delle figlie. Irriconoscente, non grata, non presente, immersa nella propria depressione. Assente rispetto ad ogni possibile richiesta di assistenza. Negli ultimi anni è stato così per me.

Avendo una vita privata tanto complicata si può avere un impegno pubblico? Io l’ho fatto. Cercando di dare voce a me stessa e a tutte le donne che ho incontrato. Tutte meno quelle della mia famiglia che delle mie istanze femministe non potevano fregarsene di meno. Cercare di migliorare la vita delle donne consapevole del fatto che per alcune non c’è nulla da fare, come è stato per mia madre alla quale spesso dicevo di ricorrere all’aiuto di qualcuno per mia sorella, proposta rifiutata da entrambe, madre e sorella, morbosamente legate l’una all’altra, mi ha fatto sentire inutile molte volte. Un fallimento, proprio come diceva mio padre. Fallita come figlia, sorella, madre. Odiata come figlia, sorella e madre. Questa è la donna alla quale avete scritto le vostre storie, affidando a me i vostri segreti più dolorosi. Sono una donna dal privato fallimentare che pubblicamente dava l’idea di essere una femminista realizzata, coerente, piena di forza interiore. Nulla di più sbagliato. Dirvi la verità, del mio tentato suicidio e della mia quindicinale depressione credo sia la cosa migliore che io abbia mai fatto, per me e per voi. E ora se non vi dispiace mi ritiro a piangere un po’, perché la scrittura è questo, per me. I tasti corrono veloci e mettono insieme parole che si compongono da sole, per spinta di quel che resta nella mia interiorità. La scrittura svela meccanismi e segreti che mai vorresti dire neppure a te stessa. E di fronte ad essi poi posso solo restare in silenzio, annientata, senza fiato. Senza un’idea di futuro lieto.

Facendo conti per capire quante sedute dallo psicologo a 50 euro l’una potrò permettermi vi rimando al prossimo capitolo. Ci sono altri vent’anni da raccontare. E sono tutti nella mia mente a spingere per venire fuori.

Eretica Antonella

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