Attivismo, Pensieri Liberi, Personale/Politico, R-Esistenze

Cronache postpsichiatriche: informazione indipendente e il G8 di Genova

Appunti per la mia autobiografia

Negli anni ’90, come già scritto lavoravo a ritmi inverosimili. Non avevo tempo di pensare a me. Mangiavo male, ingrassavo o dimagrivo e i miei disturbi alimentari si acuivano. Ma se stai combattendo contro la mafia tutto questo va messo in secondo piano. Quando avevo una settimana di pausa mi richiudevo in me stessa, spegnevo il telefono (non c’erano ancora i cellulari e internet aveva appena bussato alle nostre porte) e passavo il tempo a scrivere di altre cose. Poesie, racconti, rimuginavo su come scrivere un romanzo, non che ne avessi le capacità. Ma la scrittura teneva insieme i neuroni traumatizzati che si infrangevano come onde contro lo scoglio della precarietà, dover campare, guadagnarmi il pane, cercare di andare avanti e vivere un nuovo matrimonio, con le mie idee. Poche disavventure sessuali, poca intimità, molte domande senza risposta e continuavo a non avere prospettive per il futuro. Dipendevo sempre da un padre, poi da un marito, poi da un datore di lavoro o dall’altro. Tutti uomini. Tutti inclini a seguire percorsi soggettivi senza dare molto spazio alle donne.

Quando vedevo donne in politica affaticarsi per ottenere le quote rosa mi chiedevo sempre perché lo facevano. D’altro canto nell’area siciliana le donne che si occupavano di queste istanze erano mogli, parenti, braccio destri di questo o dell’altro politico maschio. Le quote rosa consentivano a costoro di avere più candidati della propria parte politica, donne che comunque avrebbero speso un voto al segnale del capo, maschio. Nelle intenzioni poteva essere una cosa bella, certamente utile. Le pari opportunità per le donne sono una cosa seria e non qualcosa su cui speculare. Ma il termine “donna” inteso come brand mi faceva un po’ senso allora come adesso. Di fatto alle prime elezioni in cui fu possibile l’alternanza uomo donna i capilista erano sempre uomini. Salvo per le donne che un potere ce l’avevano già alle altre spettava il secondo posto e dunque erano portatrici sane di voti per fare eleggere il capolista. Donne asservite al partito, anzi, all’uomo di partito più che alla causa. Senza contare il fatto che alle amministrative per riempire le liste e rispettare la percentuale in presenza di candidate femminili venivano scomodate suocere, mogli, cugine, parenti lontane che di politica sapevano niente. Le quote rosa, dal di dentro, coinvolta nelle campagne elettorali e nella politica, io le ho vissute così.

I programmi politici delle liste raramente presentavano punti di programma compatibili con le rivendicazioni delle donne. Per di più i diritti delle donne erano relativizzati e ridotti a mera “questione femminile”. La responsabile della questione femminile nei partiti si occupava di salvaguardare il tempo della “cura” e favorire finanziamenti per la “famiglia tradizionale”. In Sicilia i consultori arrivarono tardi rispetto alla legge del 1975. La discussione sull’aborto, garantito dalla legge 194 del 1978, era straferma e avevamo pochi santi a cui rivolgerci. In tutta Palermo, per esempio, solo uno, fino ad un po’ di anni fa, praticava l’interruzione di gravidanza. Poi neanche quello. Anche i centri antiviolenza arrivarono tardi, a Palermo un po’ prima ma con molte difficoltà per la casa rifugio per i mancati contributi comunali. Se facevi politica in quella terra potevi pensare che era l’anno zero, quello in cui poter porre le fondamenta per costruire molte cose belle. Invece non è stato così. Purtroppo. Tutto ciò che aveva a che fare con le attività istituzionali richiedeva tempo e parecchio pelo sullo stomaco. Io non ce l’avevo. Non sono mai stata brava a scendere a compromessi. Molto meglio l’attivismo extraistituzionale. D’altro canto esistevano tantissimi collettivi femministi che attendevano gli si desse voce. E non parlo di gruppi di donne affiliate a partiti. Parlo di collettivi veri e propri, che si facevano un culo così per tentare di ottenere un po’ di spazio e visibilità in una nazione tanto maschilista e patriarcale.

Ripartire dall’attivismo femminista per incontrare di nuovo me stessa. Ricominciare là dove avevo interrotto. Dalle storie di ciascuna di noi. Ho cominciato ad ascoltarle dal vivo. Ogni donna conosciuta aveva una storia da raccontare ed era fatta di violenze e di coraggio. Donne rinate, non semplicemente sopravvissute. Tutte. O almeno così dicevano. E perché non io? Perché non riuscivo a disfarmi di questa pelle che non faceva che sommare violenze, sin da piccola, e poi da grande e poi le molestie sul lavoro, più e più volte, archiviate per sopravvivenza. Settimana vuota, mi fermavo ancora, col bisogno istintivo di scrivere, in un computer, un mac di prima generazione, dove inserivi un floppy disk, comprato di terza mano. E in quei momenti volevo strapparmi via la pelle a morsi, troppe volte livida, frantumata, vomitevolmente palpata. Esistevo solo per il desiderio maschile? Quanto contava la mia intelligenza senza considerare il mio aspetto?

Senza mai arrivare ad un punto fermo continuai a vivere e lavorare. Trovai perfino qualcuno che si innamorò di me. Rifiutai. Poi arrivò un ragazzo che mi sembrò gentile e lo assunsi come partner sessuale a tempo pieno. Ne avevo un gran bisogno. Non era violento, non era molesto, era discreto a sufficienza, non faceva ricatti psicologici. Pensai di essere salva. Avevo superato il trauma della vittima di un uomo violento. Riconoscevo chi non lo era e riuscivo a farmelo piacere. Ero rinata anch’io? Avevo guadagnato la mia nuova pelle?

Nel frattempo mio padre mi faceva la morale perché aveva saputo e mi voleva o sposata o in stato di perenne vedovanza. Una divorziata non può permettersi di perdere tempo con uno qualunque, diceva. Ma che ne sai tu. Che ne sapeva lui di quello che avevo passato, di quanto fossi stata male e quanto male mi aveva fatto il mio ex e tutta la mia famiglia. Cosa ne sai della mia pelle che sapeva di muffa e della mia vagina che non emetteva suoni, non più, neanche un flebile fiato. Mi sentivo sessualmente defunta. Almeno sotto quell’aspetto rinacqui. Poi la storia finì ma la pelle non sapeva più di muffa e la vagina cantava a squarciagola. Sapete che le vagine possono cantare, vero?

Dopo quel ragazzo mi lasciai sedurre o sedussi senza aver più paura di me stessa. Per paura dell’abbandono, il cui trauma non avevo né affrontato né tantomeno superato, li lasciavo per prima, non li richiamavo, non li degnavo di molta attenzione. Potevano toccarmi ma non tanto da farmi male. Questa era la mia regola.

Abbigliamento da cubista Tiè.

Fu un periodo ricco di cambiamenti. Lavoravo ovunque e per qualunque cifra, anche poco bastava. Poi mi improvvisai corista, cabarettista, donna che ballava sul cubo in discoteca. Partecipavo alle attività di associazioni palermitane cucinando crepes alla nutella, lavoravo in una libreria, poi chiusa, sulla quale spesi la mia liquidazione e una montagna di soldi guadagnati con fatica, scrissi altri racconti che vennero pubblicati qui e là. Molti erano monologhi di cabaret. Avevo una vena ironica e umoristica che piaceva e finché è durata mi divertivo anch’io con le mie amiche.

Dopo il computer arrivò il modem a 56K, lentissimo e caparbio. Scoprii nuove possibilità, altri mondi, altre persone che nelle chat potevano definirsi come preferivano. Erano mondi in cui i generi non contavano, almeno all’apparenza, ma imparai il valore della comunicazione online e da lì iniziò un altro capitolo della mia vita. Conobbi Indymedia, un network internazionale nato in Italia nei primi anni 2000 e mi piacque il principio che diceva “sii tu il tuo media”, “diventalo”. Entrai a far parte del gruppo e a pubblicare contenuti e poi arrivò il 2001. Appuntamento a Genova, per realizzare il media center durante il G8.

Partimmo in camper, attraversando varie città d’Italia, assieme ad un gruppo di persone che arrivava dal mondo degli Hackmeeting (meeting degli hackers che si svolge ogni anno) e dal giornalismo indipendente. Io da Genova scrissi per L’Ora e collaborai con gli attivisti di mezzo mondo per quel che potevo. Posizionati zaini, computer, materassini alla Diaz, complesso di due istituti uno dei quali ospitava il media center e la postazione degli avvocati volontari ad assistere i manifestanti, partecipai alla manifestazione del venerdì, bloccata da cariche violente della polizia. I lacrimogeni bruciavano la pelle, qualcuno urlò che un manifestante era stato ucciso. Non sapevo ancora chi né dove. Rientrai correndo, per strade secondarie, tentando di non essere intercettata da polizia e altre forze che beccavano chiunque si aggirasse per le strade di Genova. Andai per raccontare cosa avevo visto e sentito e invece trovai gli altri di Indymedia che già gestivano la mole enorme di informazioni, file video e immagini, arrivate da ogni parte. La prima immagine che vidi fu quella di Carlo Giuliani steso a terra, morto. I carabinieri dicevano che era stato colpito da una pietra, si scoprirà poi che il cadavere fu vilipeso con un colpo di pietra per nascondere la vera causa della morte: un proiettile sparato da un carabiniere.

Seguì una riunione in lingua inglese, rivolta a tutte le cittadinanze presenti, in cui i compagni di Indymedia aggiornavano su quello che era successo e su cosa fare il giorno dopo. Durante la notte furono sgomberate sedi in cui i manifestanti stavano dormendo. Continuava la guerra contro cortei e postazioni autorizzate. Quella notte riposammo poco, per lo più parlavamo tra noi, molti erano spaventati. La mia pelle era massacrata dall’effetto del gas tossico. Sul tg nazionale si parlava di tutto meno che della verità. Chiunque a Genova volesse far trapelare ciò che davvero stava accadendo beccava manganellate. Meglio gettar via il cartellino con scritto “Press”. Ai militari non fregava niente del rispetto per la stampa.

Le forze istituzionali, per l’occasione riunite a Genova per meglio “monitorare” la situazione, non si aspettavano che la manifestazione di sabato fosse tanto affollata. Invece arrivarono persone che neppure pensavano di partecipare. Erano arrabbiate e volevano ribadire il diritto a manifestare senza perciò essere picchiate o uccise. Il corteo venne troncato a metà da una carica dei militari e io mi trovai nella zona bassa, vicino al mare, senza possibilità di risalire. Cercando rifugio per evitare i lacrimogeni in tanti ci ritrovammo a saltare e correre. Pioveva fumo dall’alto, dal mare, da terra, ad altezza d’uomo. Lacrimogeni sparati per colpire qualcuno. Non mi restava che tornare indietro e risalendo il viale presi una manganellata in testa. Rimasi a terra, tramortita un po’ e poi soccorsa da qualcuno che non vedevo bene. Per il gas tossico le mie lenti a contatto si erano fuse. Mi lavarono gli occhi con acqua, poi latte. E mi lasciai guidare da questi compagni di ventura attraverso vicoli, scale e scalette e stretti corridoi in salita, correndo senza rallentare. In zona Diaz ci separammo. La Diaz sembrava un ospedale da campo. Avevo visto sangue un po’ dovunque, sparso per i marciapiedi, continuavo a vederne ancora. Tanti testimoni, feriti, rilasciavano testimonianze agli avvocati. Gli abusi raccontati erano incredibili. Tutti avevamo la sensazione di essere in un posto fuori dal mondo. Poi fu definito “stato di sospensione dei diritti”. Continuavamo a vedere la tizia del tg che diceva stronzate e noi cercavamo gli amici, per capire se ne mancava qualcuno. Passai quel tempo scrivendo, inviando aggiornamenti. Pensavamo tutto fosse finito. Invece.

Dopo qualche ora vedemmo arrivare poliziotti che sfondarono i cancelli di un edificio della Diaz, quello che ospitava tante persone in cerca di un luogo per dormire. Entrarono e cominciarono a inseguire e picchiare chiunque dormisse dentro. Poi vennero da noi, presero gli hard disk dei computer in cui gli avvocati avevano raccolto le testimonianze degli abusi subiti dai manifestanti. Presero gli hard disk dei computer del media center (peccato che il materiale fosse già stato pubblicato online). Ci trovarono tutti stretti nella stanza in cui Radio Onda Rossa faceva streaming in diretta.

Chi stava al microfono annunciò l’ingresso della polizia con i manganelli in alto, pronti a colpire. Li abbassarono subito, grazie a quella diretta. Dissero qualche stronzata sul fatto che noi occupavamo abusivamente edifici pubblici. Non era vero. Avevamo l’autorizzazione. Poi dissero che cercavano i neri, quelli del blocco. Cercando cercando, dato che non trovarono nulla, portarono in conferenza stampa attrezzi edili presi dall’area degli edifici in restauro, due bottiglie molotov che avevano in realtà portato loro (c’è una sentenza per inquinamento di prove a questo proposito), coltellini svizzeri utili per campeggiatori. Nessuna arma di distruzione di massa. C’erano solo corpi inermi che sono stati trasportati in ospedale, i più gravi, o a Bolzaneto, i feriti meno gravi, dove la tortura proseguì per ore e ore con componenti omofobe e sessiste, mimando lo stupro e dando della troia alle ragazze. Ancora oggi attendiamo che sia riconosciuto il reato contro la tortura.

Dove stava il media center c’erano invece tanti documenti che evidentemente non si voleva vedessero la luce. Credo che il blitz fosse dovuto a quello, per sequestrare prove video o cose simili. E anche per piazzare qualche prova falsa per uscire un po’ meglio dalla misera figura di merda che avevano fatto su scala internazionale. L’informazione dal basso, quella di Indymedia e di tanti altri giornalisti che scrissero e parlarono ovunque di quanto era successo, aveva perciò, per una volta, una volta sola, vinto sull’informazione mainstream. Il tempo successivo lo trascorremmo a raccogliere gli effetti personali lasciati da tutti gli arrestati, massacrati, picchiati, per radunarli e organizzarli in modo da poterli poi restituire. Cercammo di capire ancora dove fossero le persone che conoscevamo, se in carcere, in ospedale, già in viaggio di ritorno. Ripartire per tornare a casa, con quel carico di rabbia e impotenza non fu facile. Lasciavamo gli avvocati ad assolvere alla responsabilità di tirare fuori o capire dove fossero gli arrestati. Io e altri passeggeri di quel camper viaggiammo per quasi tutto il tempo in silenzio, con troppe cose da elaborare.

I mesi successivi restai in movimento, da una città all’altra, per raccontare e presentare i video che Indymedia aveva prodotto su Genova. Leggevamo di manifestanti condannati per aver danneggiato una vetrina e di semplici trasferimenti e promozioni per i membri delle forze dell’ordine coinvolti nelle violenze contro i manifestanti. Ad aiutare il legal Team ci furono tanti compagni che continuarono una battaglia per la giustizia complicata da portare avanti.

Su indymedia convergeva anche un bel pezzo di realtà femministe italiane, quelle di Bologna per esempio, con le quali realizzammo la categoria Gender su Indymedia Italia. Le sexyshock bolognesi sono state per me un punto di riferimento fantastico perché erano altro rispetto alle voci uniche del femminismo mainstream, para-istituzionale. Ed è con loro che imparai nuovi linguaggi, nuovi obiettivi e tecniche di lotta. Ancora da capo, tra hackmeeting, indymedia e collettivi femministi. La mia pelle in quei contesti si sentiva a proprio agio. E lì per un po’ rimase.

E la storia continua

Eretica Antonella

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