Pensieri Liberi, Personale/Politico, Precarietà, R-Esistenze

Cronache postpsichiatriche: età del lavoro e attività politica

Appunti per la mia autobiografia.

Dopo aver vissuto sulla mia pelle gli effetti della violenza di genere cominciai ad approfondire per mio conto. Ritagli di giornale, cronache di donne uccise dai mariti o dai padri o dai fratelli. Donne stuprate e massacrate lasciate sul ciglio di strade di provincia, in quel caso parlavano sempre e solo di anonime prostitute, come se non si trattasse di persone, di esseri umani. Ma la questione era semplice. Il termine umano viene da uomo e le donne si pensava tutto fossero meno che uomini, anzi erano uomini mancati. Nel libro “Casanova e l’Invidia del grembro” di Carlo Flamigni si discute di come eminenti scienziati discutessero dell’eventualità che la donna, uomo mancato, vivesse seguendo la ragione dell’utero, considerato come alieno pensante dentro il corpo femminile. Non era la donna a pensare ma l’utero e l’utero, si sa, pensa sempre male. Tutte le volte che un uomo dice “hai le tue cose” o “ragioni con l’utero” si riferisce a quella cultura vecchia di duecento anni e dura a morire.

Lo stesso valeva per l’isteria, pseudo malattia attribuita al cattivo funzionamento dell’utero pensante. Avrei voluto sapere di tutto questo quando mio padre mi dava dell’isterica e dirgli che ho un cervello anch’io e di certo non sta in quelle zone addette alla riproduzione. Forse era lui che ragionava col cazzo, come tanti uomini spinti dal desiderio e dalla mentalità maschilista a misurarsi col prossimo secondo la lunghezza del pene.

Erano gli anni ’80 e solo nell’81 era stato cancellato il delitto d’onore. Sempre nell’81 era stata cancellata la possibilità, per lo stupratore, di evitare la galera attraverso il matrimonio riparatore. Nel ’75 c’era stata la riforma del diritto di famiglia, dunque io, divorziata, potevo diventare capofamiglia senza dover dipendere burocraticamente da nessun uomo. Ma i pregiudizi restavano tutti. Dunque ero divorziata con prole, mi mantenevo con l’aiuto dei miei e con le lezioni private a studenti di medie inferiori e primi anni delle superiori e nel frattempo facevo la fila all’ufficio di collocamento, l’ex centro per l’impiego, per iscrivermi nella lista dei disoccupati e partecipare a selezioni per lavori temporanei qui e là.

Non abbandonai la passione per la scrittura e per il giornalismo e scrissi qualcosa per i Siciliani, settimanale fondato da Pippo Fava, e anche per L’Ora. Figli o meno continuavo a seguire la politica locale e la guerra di mafia da vicino e vedevo i cambiamenti che questo sortiva in quel territorio. Cagacazzi al Comune, volantinatrice d’assalto per sensibilizzare l’opinione pubblica e poi polemica antimafiosa con un gruppo di persone per organizzare eventi e manifestazioni. Ad una di queste iniziative conobbi un parlamentare regionale che aveva aderito al Movimento per la democrazia La Rete, movimento a tempo con pochi obiettivi comuni nato dall’unione di Leoluca Orlando, Claudio Fava, Nando Dalla Chiesa, Antonino Caponnetto, altri coinvolti nel pull antimafia e politici palermitani di Democrazia Proletaria, il partito di Peppino Impastato. Durante l’iniziativa lessi una denuncia su attività illecite nel territorio e il supporto del movimento fu fondamentale. Dopo poco tempo il consiglio comunale fu sciolto per mafia. Io fui chiamata dal gruppo a lavorare per loro per dare una mano al gruppo parlamentare regionale dell’assemblea regionale siciliana. Mi trasferivo a Palermo città.

Inizi anni ’90, quando Palermo era un ribollire di iniziative contro la mafia, contro i palazzinari, la mafia imprenditrice, noi attraversavamo i vicoli del centro storico, deserti, in cui solo qualche balcone era aperto a lanciare una sfida ai mafiosi. Su balconi e finestre venivano stese delle lenzuola bianche. Gli striscioni urlavano “La mafia uccide, il silenzio pure”. Con noi c’erano cittadini di tutti i tipi stanchi di essere schiavi di governi mafiosi. C’erano gli studenti, i preti, le donne, persone appartenenti alle forze dell’ordine che ricordavano le vittime di mafia, c’erano giornalisti che avevano perso colleghi uccisi negli anni ottanta. La Rete diventò una forza politica emergente e ottenne così 5 seggi nel parlamento regionale.

Il mio lavoro era quello di approfondire questioni che da sempre mi interessavano. Per il gruppo cercai dati per denunciare brogli elettorali da parte di politici appoggiati da mafiosi. Un dossier finì nelle mani della magistratura, un politico fu arrestato, io fui chiamata a testimoniare. Parenti del politico e dei mafiosi erano oltre la muraglia di ferro che separava corte e testimoni dal pubblico. Mi urlavano “‘a signurina… ‘sta puttana…’a principessa”. Non ero certo una testimone chiave. Avevo solo visto come nel mio territorio rappresentanti di famiglie mafiose davano in giro volantini di quel tal politico. Il resto riguardava indagini, intercettazioni, che costituivano prove certe di quel reato. Il politico segnalato era prima dell’arresto il presidente della commissione antimafia nell’assemblea regionale antimafia. Un paradosso. Perciò fu necessario un dossier per svelare l’incompatibilità di quella persona nel rivestire quel ruolo. Non solo, nelle precedenti denunce parlavo di un boss mafioso che sosteneva un parlamentare nazionale della stessa corrente democristiana. Lui e i suoi amici non ne furono felici. Da lì gli sputi in mia presenza. Il boss fu arrestato e del politico si parlò come di qualcuno che aveva legami poco chiari. Partì un’indagine che però si concluse con un nulla di fatto.

Ricevetti minacce scritte, telefoniche, gente che mi seguiva, qualcuno diede fuoco al portone della mia casa paterna, poi arrivarono tre proiettili indirizzati a me ma sicuramente coinvolgevano i due deputati regionali che mi avevano aiutato in quella battaglia, sia all’assemblea regionale siciliana che in tribunale. Il politico prima mi querelò poi ritirò la querela. La commissione per la sicurezza in questura decise di rafforzare la sicurezza all’ingresso del parlamento regionale, affidò una scorta ai due parlamentari e a me.

Continuavo a lavorare per il gruppo, realizzando altri dossier e poi come coadiutrice parlamentare, occupandomi di attività ispettiva, interrogazioni e interpellanze, disegni di legge. Nel frattempo ad una assemblea nazionale de La Rete fui eletta come membro del Coordinamento Nazionale. Questo implicava spostamenti in ogni dove, assemblee in varie città siciliane, partecipazione a incontri nazionali a Roma. Per sicurezza anche la mia famiglia e figli erano monitorati prima da militari e poi da passaggi frequenti della Polizia. Col Movimento ebbi qualche momento di scontro quando qualche leader si pronunciò contro l’aborto e in quell’occasione rilasciai un’intervista ad un settimanale nazionale dicendo che il movimento era fatto di anime diverse, la mia era tutta a sinistra e femminista e condividevamo un solo obiettivo, la lotta contro la mafia. Dalla mia postazione all’Ars seguivo passo passo tutte le evoluzioni della discussione in parlamento nazionale su un cambiamento indispensabile per le donne. Nel 1996 la legge che parlava di stupro non fu denominata delitto contro la morale ma contro la persona. Io e altre festeggiammo per aver finalmente ricevuto l’onore di essere considerate persone e non come parti sociali preoccupate di non dover turbare la morale pubblica.

Nel 1992, il 23 maggio, fu un brutto momento per tutti noi. Quintali di tritolo spazzarono via metri e metri di asfalto dell’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. All’altezza di Capaci perdono la vita Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, e restano ferite 23 persone, inclusi altri agenti di scorta.

Il 19 Luglio 1992 un attentato fa esplodere parte di Via D’amelio e il frontale del palazzo in cui abitava un magistrato: Perdono la vita Paolo Borsellino, cinque agenti di scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.

I funerali di Stato per i magistrati e uomini e donne delle scorte furono presi d’assalto dalla gente inferocita. Mentre in chiesa, la cattedrale di Palermo, e in strada urlavano “assassini” ai rappresentanti dello Stato, Palermo veniva militarizzata con gruppi di soldati provenienti dal nord Italia, il cui compito, si disse, era quello di proteggerci. Di fatto, nel giorno dei funerali alla scorta di Borsellino, quei soldati impedirono a poliziotti e cittadini di raggiungere i rappresentanti dello Stato. Ci furono cariche per sfondare quel muro di militari, qualcuno riuscì a colpire un politico con un pugno, tutti erano devastati da stragi la cui provenienza era chiara.

La strage di Capaci fu descritta come parte di un piano di collaborazione tra stragisti neri, presenti soprattutto nel trapanese, e mafiosi. Si parlò del fatto che quella quantità di tritolo poteva venire solo da una delle basi Nato nei dintorni. Ma queste erano solo ipotesi. Il tempo, i pentiti, poi rivelarono altre, forse più comode verità. Per Borsellino l’attentato era di origine mafiosa ed era strano perché lui era stato trasferito da poco a Trapani. In quella stessa città si verificò la strage di Pizzolungo, un’auto piena di dinamite venne fatta esplodere per colpire il magistrato Carlo Palermo. Invece persero la vita Barbara Rizzo e i figli Giuseppe e Salvatore Asta.

In Sicilia avevamo già molte vittime di mafia. I giornalisti Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato, per esempio. La libertà di informazione dalle mie parti non era un diritto ma una colpa. Tuttavia vedere la reazione di Palermo alle stragi aveva fatto nascere una speranza, c’era forse voglia di cambiamento e manifestazione dopo manifestazione tentavamo di portare in piazza ogni possibile denuncia affinché le cose cambiassero. Fino al 1994. Elezioni nazionali. Strade invase dalla colonna sonora di un nuovo partito nascente che offriva speranza ma copiava il programma politico dai punti descritti nel piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli. Primo punto: togliere poteri alla magistratura. Altra promessa: cancellare il 41 bis, l’isolamento per i mafiosi. E Palermo cambiò volto, diventando una copia della Milano 2 omaggiata da chiunque.

La Rete non riuscì a far eleggere nessun parlamentare perché non superammo il 4% di sbarramento. Il movimento poi cambiò nome, diviso e senza scopi, mentre dalle ceneri di tangentopoli a Milano veniva fuori il nome di un magistrato che avrebbe formato un altro movimento. Ho lavorato con il gruppo regionale fino al 1998. Nel frattempo, dato che vi erano stati cambiamenti cruciali in Sicilia, ammorbidimenti, come il fatto di inviare in soggiorno obbligato uno dei boss di cosa nostra proprio a casa sua, la mia zona, mentre veniva trasferito uno degli agenti della mia scorta per incompatibilità ambientale, perché aveva partecipato alla sua cattura, io così rinunciai alla scorta. Se non potevano tutelare un agente figuriamoci me. Avevo visto cosa poteva fare la mafia a gente ben più di valore di me che ero appena una militante dalla penna veloce.

Dopo le stragi la mafia cambiò tattica. Non faceva guerra a nessuno, men che meno al governo per ottenere la cancellazione del 41bis. La mafia era entrata in politica e i deputati, sebbene arrestati o indagati, vennero rieletti e legittimati in parlamento nazionale vanificando anni e anni di lotta e sangue speso in nome dell’antimafia. Anche il gruppo per cui lavoravo cambiò volti, entrarono a farne parte altri, meno motivati, uno dei quali mi mise le mani addosso, molestie messe a tacere non per bontà d’animo. Il mio lavoro non aveva più molto senso. Il mio contratto non fu rinnovato.

La politica per come l’avevo conosciuta, a partire dal coordinamento nazionale e dai tavoli, lì seduta a contrattare con vertici di altri partiti, mi diceva solo che in troppi erano interessati alla propria posizione di potere. La Sicilia veniva divisa in feudi appartenenti a quello o al tal altro politico che da lì muoveva l’elettorato secondo il proprio interesse. Le alleanze strategiche tra partiti servivano a superare la soglia del 4% e nel frattempo i partiti minori di sinistra si frantumavano sempre di più arroccati su battaglie volte a guadagnare il diritto di copyright sulla falce e martello nella bandiera.

Ero disincantata, amareggiata, delusa e mi sentivo sola. Ma Palermo era la mia città e continuai a viverci facendo ogni genere di lavoro. Fare la cameriera mi piaceva. Non serviva prostituire la penna per nessun incompetente. Non serviva prostituire il cervello. Le mie idee restavano mie. Le mie critiche restavano mie. Prendevo l’ordinazione, servivo cibo e bevande, sviavo discorsi molesti dei clienti e evitavo le molestie dei capi. Salvo l’orrore di quel grembiulino bianco da indossare come divisa per confermare il look del marchio poi andavo veloce, imposi le scarpe da tennis dove volevano il tacco alto e la mia vita procedeva con qualche soldo in meno e molte preoccupazioni in più. Per arrotondare lavorai anche in una agenzia di pubblicità. D’altronde scrivere per conto d’altri, vendere un personaggio politico, anche se l’epoca dei social non era ancora arrivata, era stato in parte il mio mestiere. Meglio vendere un detersivo o una bella bottiglia di vino. Meglio organizzare feste per il lancio del tal prodotto, con inviti a personaggi famosi, molti dei quali a vederli da vicino mi facevano venire il vomito. Meglio frequentare convention o far parte dello staff dietro le quinte in concerti nazionali e internazionali. Ho perfino fatto da badante ad un gruppo di ballerini e musicisti straordinari che partecipavano alle iniziative attorno alla sacra festa di Santa Rosalia. Se balli e ti muovi rapidamente la vita va un po’ meglio. E senza scorta imbarazzante quando devi andare al cinema (per loro e per me) trovai un po’ di spazio per pensare ai traumi passati e alla mia vita privata messa da parte per troppi anni.

Eretica Antonella

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