Pensieri Liberi, Personale/Politico, R-Esistenze

Cronache postpsichiatriche: se ti dicono “fallirai” finisci per crederci!

Ancora appunti per la mia autobiografia.

Questo era l’angolo scrivania in cui si poteva studiare a turno. La mia posa suggerisce però che sto indossando un vestitino nuovo e rieccoci con la passerella per far contento il papà. Quello che ricordo di quella giornata fu un capitombolo per le scale mentre tentavo di proteggere i fiori che dovevo portare alla maestra. Non so per quale occasione. Ricordo i rimproveri “non stai mai attenta” e ricordo il fatto che essere perennemente controllata mi provocava ansia e gli stessi sintomi che avrebbe chiunque fosse affetto da labirintite. Non stavo in equilibrio. Dovevo fare sempre attenzione. “Guarda che cadi, se fai così cadi, GUARDA CHE CADI…” e io ovviamente cadevo. La scala era un incubo, salivo e scendevo poggiata alla ringhiera. Camminavo per strada seguendo righe o disegni precisi, per evitare di vacillare. Se allora qualcuno mi avesse detto che nell’età adulta avrei indossato un tacco dodici gli avrei riso in faccia.

Di fatto era così: mancavo di equilibrio. Se non restavo al fianco di qualcuno andavo a zig zag. Più tardi con l’arrivo della miopia la cosa peggiorò e anche con gli occhiali quella voce che mi diceva che avrei sempre fallito non mi lasciava mai. Se usavo il coltello “guarda che ti tagli…” e mi tagliavo. Se lavavo i piatti, perché a quell’età ero una femminuccia che faceva i lavori di casa per aiutare la mamma, “guarda che lo rompi...” e lo rompevo. Mio padre credo soffrisse di ansia allo stato cronico e non mancava mai di trasmetterla ai figli. Questa cosa del fallire, qualunque cosa facessi, me la sono sempre portata dietro. Non sono riuscita a liberarmene. Ancora adesso, in special modo nel bel mezzo della mia depressione, quella voce che dice che sbaglierò tutto continua a perseguitarmi. Fallirai, fallirai, fallirai, salvo poi sorprendersi quando facevo qualcosa senza far cadere o rompere nulla. Io cercavo solo di fare del mio meglio per essere amata. Nulla di più.

Aggiustai un po’ l’equilibrio quando con i soldini delle colazioni, quelli per mangiare qualcosa durante le ricreazioni scolastiche, pagai un corso di danza. Io amavo ballare e quando ballavo tutto mi sembrava possibile. Non potendo proseguire però seriamente con quell’attività, che mio padre si guardò bene dal finanziarmi, continuai a farlo per hobby. Imparai a camminare seguendo una linea quasi retta. Quando un paio di mesi fa rimisi piede fuori casa dopo essere stata rinchiusa per agorafobia per quattro anni, mi sentivo come quella bambina. Avevo capogiri, ero senza equilibrio. Alla prima visita dalla psichiatra sono arrivata trascinandomi poggiata ai muri e vacillando nei punti vuoti. E’ dura combattere contro se stessi quando hai introiettato l’idea che fallirai. E di quel fallimento poi pagavo le spese con le botte. Mio padre non si assunse mai la responsabilità per l’ansia che mi trasmise in ogni momento.

Il carnevale era per me poi una vera tortura. Non solo per il fatto di dover indossare sempre abiti da madonna o principessa ma per il fatto di dover fare attenzione a non rovinare il vestito, la pettinatura, tutto quello che con fatica mia madre aveva ottenuto. Non ricordo di essermi mai divertita a carnevale se non quando da adulta mi vestivo come volevo e facevo come mi pareva. Io ero esattamente come mio padre mi voleva: insicura, piena di ansia, priva di equilibrio, terrorizzata per le conseguenze dei fallimenti che sicuramente sarebbero arrivati.

L’altra festività che non potevo mai godermi era il natale. Per mia madre era obbligatorio cucinare pietanze per un esercito ma rilassarsi era proibito per tutti. Ci si rilassava e poco solo quando c’erano parenti nei dintorni. In quel caso potevo anche concedermi il lusso di perdere a carte senza beccarmi un ceffone. Se eravamo da soli dovevamo stare in silenzio, senza musica, che dava fastidio a mio padre, senza eccedere nelle risate, perché da fuori potevano sentire (nessun problema a far sentire le urla dei litigi però), senza disturbare troppo. Erano attività natalizie controllate. Sai che divertimento.

Infine sono arrivate le mestruazioni e sono diventata, come si dice dalle mie parti “signorina“. A quel punto la mia cuginetta mi portava di nascosto a fumare, gran brutto vizio che non avrei dovuto prendere, e quando tornavo a casa mio padre sentiva l’odore e mi consegnava ceffoni perché crescevo da “spostata“, neanche fossi drogata d’eroina. La spostata, nel mio dialetto non è una che si sposta da un punto A ad un punto B ma sta per zoccola. E dato che da lì iniziò la mia attività di ribellione casalinga, con tanto di blocchi e sit in nelle stanze o di scioperi di qualunque tipo ovunque, per le tante legnate, i tanti “se fai questo o quello ti ammazzo“, o “ti ammazzo“, detto gratuitamente ad ogni respiro, mi abituai, non so come, a diventare la ribelle fuori, che faceva le occupazioni studentesche e partecipava alle manifestazioni, e la vittima di questo sgradevole e terroristico modo di fare genitoriale in casa. Avevo paura di morire superata la soglia di casa e non me ne rendevo neppure conto. I primi sintomi dei disturbi alimentari comparvero nella prima adolescenza. Dato che in casa tutto si sistemava col cibo e dato che se non finivamo quel che c’era nel piatto partivano le legnate, io digiunavo o mi rimpinzavo di nascosto quando ero da sola.

Il resto alla prossima fotografia.

Antonella Eretica

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