
Buon 8 Marzo a tutte. E intendo proprio tutte. Incluse quelle che sono malate, impossibilitate a muoversi, disabili o come chiunque vuole chiamarci, neuro atipiche, o malate mentali, agorafobiche, depresse croniche, con tentativi di suicidio alle spalle, con difficoltà a svegliarsi al mattino, a prendere sonno la notte, con cicatrici sulla pelle che testimoniano gli atti di autolesionismo, con il grasso o la magrezza che testimoniano i disturbi alimentari, con ogni tipo di problema che sia visibile o invisibile e che difficilmente viene considerato.
Al di là delle belle parole il punto di certe malattie e che è difficile parlarne, come lo è stato per me che me ne sono vergognata per molto tempo.
Certe malattie che riguardano la salute mentale sono sempre stigmatizzate e anche se non lo sono mettono comunque a disagio tante persone che scambiano la depressione per mancanza di volontà o pigrizia, i disturbi alimentari per volontà di ingozzarsi o digiunare per le diete. Senza considerare i disagi profondi che accompagnano queste malattie e i traumi e spesso le violenze che le hanno causate. Ci sono poi molte malattie non esattamente visibili e socialmente riconosciute e lo sanno tutte le donne che per esempio soffrono di Fibromialgia o di Endometriosi o di qualunque malattia autoimmune, patologie invalidanti che poco si prestano alla soddisfazione della vocazione al martirio di certe categorie di persone.
Non posso elencarle tutte ma da quando ho detto pubblicamente della mia depressione mi si è aperto un mondo fatto di persone, tante donne, che per motivi diversi vivevano la stessa vergogna, lo stesso isolamento sociale, la stessa sensazione di abbandono da parte delle istituzioni. Molte donne si trovano poi dall’altra parte nella situazione di dover provvedere alla cura di parenti disabili e anche quelle difficilmente godono della possibilità di poter uscire, scioperare per un giorno, scendere in piazza.
Quello di cui parlo non è un atto rivoluzionario, non è una distinzione tra donne migliori e donne peggiori, ma è l’oggettiva constatazione di fatto che riguarda donne che pur volendo scendere in piazza non possono farlo, per una ragione o per un’altra, o possono ma non scendono mai in piazza intere, non riescono a portare il peso del proprio problema alla luce identificandolo come uno dei tanti modi in cui le donne lottano e sopravvivono.
Ricordo negli anni più recenti di essere andata in piazza a rivendicare diritti per le donne e per tutte le persone oppresse pur non dichiarando il mio disagio profondo, la mia malattia, i miei reali problemi. In questo momento penso che allora fossi una comparsa ed è ingiusto per quelle che in piazza portano la propria personale verità. Non ho di certo mentito del tutto, ho omesso il mio presente, trovando più facile condividere l’elaborazione del mio passato, la parte che riguardava le violenze subite, sentendomi in colpa spesso per il fatto di non essere riuscita comunque a superare pienamente i miei traumi. Sarebbe stato rivoluzionario per me scendere in piazza con un cartello che diceva sono stata maltrattata, picchiata, stuprata, e ho cicatrici non visibili in tutto il corpo che ancora non guariscono.
Mi ha sempre preoccupato la retorica di chi pensa che dopo una violenza non vivrai mai più bene. Una retorica generalmente finalizzata a concepire un sistema assistenziale, pietoso, che ti elegge a vittima e allo stesso tempo proprio in quanto tale ti toglie diritto all’autodeterminazione, alla capacità di pensare e parlare per te, di autorappresentarti.
Perché si può essere ferite ma si possono comunque fare delle scelte che procedono nella direzione di un’emancipazione personale che non corrisponde a quella che sceglierebbero tutte le donne.
Lo stato patriarcale ha sempre parlato di violenza sulle donne usandoci come martiri da esibire per legittimare il paternalismo, il potere maschilista, espressi in ogni legge o azione istituzionale che ci riguardi. Noi martiri e gli uomini i protettori. Ed è così che a noi viene tolta la dignità di definirci autodeterminate e che loro scansano l’accusa di essere i carnefici.
Quindi giusto per concludere questa parentesi il punto è che sono scesa in piazza ma ho mentito alle mie sorelle nascondendo i miei disturbi alimentari, la mia depressione, a volte la mia voglia di morire. C’erano le volte in cui pensavo di dover essere presentabile, più magra, più carina, per essere accettata in un contesto che non deve tenere conto di tutto ciò. Perché quello è il contesto in cui diciamo a noi stesse e al mondo che noi esistiamo, che piaccia o meno, noi siamo fatte così ed è così che ci accettiamo e che devono accettarci.
Mi chiedo perciò quante siano le compagne, le sorelle, che non sono riuscite a mettere in comune i propri disagi nelle assemblee femministe. Donne che non sono riuscita a parlare ad altre donne dei profondi problemi che stavano vivendo.
Così come poi esiste il problema di mettere in comune la propria precarietà su tutti i fronti. La povertà di alcune mette a disagio la stabilità economica di altre. Questo è un problema di cui si è parlato molto in passato ed è per questo che nel tempo il femminismo intersezionale e il trans femminismo hanno messo insieme questioni di genere, questioni di razza, questioni di classe.
Oggi pongo il problema della difficoltà a portarsi dietro, letteralmente, la femminista invalida di turno. Perché scomodo, così come un tempo era scomodo evitare di fumare nelle assemblee in cui le donne portavano i propri bambini. O scomodo era immaginare assemblee in cui vi fosse un’area di intrattenimento per i bambini.
Mi chiedo quante siano le compagne che si siano ritirate in silenzio per problemi di salute. Quante sono le donne che sono diventate scomode da portarsi dietro. Quante le donne i cui problemi non vengono considerati in agenda politica. Non parlo di salute, reddito, casa. Fatti oramai compresi da tutte. Parlo di affettività, di solitudine sociale, solitudine personale. Parlo dell’impossibilità o l’incapacità di mettersi in relazione e comunicare con le altre. Parlo di sensibilità individuale e collettiva, di umanità, di empatia che spesso, troppe volte, manca in certe discussioni e in certi aspri dibattiti tra femministe che non vedono le cose allo stesso modo. Parlo del fatto che se ci sono donne che non riescono a parlare fino in fondo dei propri problemi con le altre è possibile che il disagio avvertito socialmente sia presente anche in quei luoghi e in quegli spazi che dovrebbero per tutte essere sicuri. Non solo per dire sono stata stuprata, ricevendo ovvia è dovuta solidarietà e azioni di ribellione collettiva a supporto. Ma anche per dire ho subito dei traumi trent’anni fa e non sono un’eccezionale donna che è riuscita a realizzarsi con le proprie forze. Anche per dire quali sono le nostre enormi vulnerabilità, quali i momenti di crisi più grande. Perché se è vero che il femminismo è personal politico significa che tutto ciò che viviamo in termini personali deve essere collettivizzato, condiviso affinché diventi parte di un discorso politico.
Quali siano i possibili propositi di questo discorso politico io ancora non lo so, non vedo chiaramente gli obiettivi. Ma per esempio individuo un fatto ovvero la necessità di esercizi reali di mutua assistenza in situazioni di malattie visibili o invisibili che ci riguardano. Individuo lacune sui ragionamenti che riguardano il nostro diritto alla salute dovuti al fatto che probabilmente di salute mentale abbiamo parlato troppo poco in termini individuali, mettendo a frutto la nostra esperienza, mettendo in comune quello che noi sappiamo perché lo abbiamo appreso sulla nostra pelle.
Individuo il fatto che quando si parla di precarietà, diritto al reddito, alla casa, non si pensa a progetti di cohousing realizzati tra donne, che non sono le case famiglia che garantiscono il diritto alla maternità di donne in difficoltà con bambini piccoli oppure le case rifugio per donne che vivono la violenza di genere sulla propria pelle. Parlo di case per donne che sono sole, malate, sane, comunque in cerca di un’abitazione e anche di un modo per mettere in comune ciò che si sa fare. Una casa in cui assistersi l’un l’altra, in cui ciascuna può rendersi utile nel modo che gli è più consono, una casa in cui esercitare solidarietà reciproca in maniera laica e lasciando a ciascuna il diritto ad autodeterminarsi.
In questo momento a me servirebbe davvero una casa così. Lo preferirei alla ricerca di un’inutile e costoso spazio in affitto. Lo preferirei alla ricerca di un lavoro che nella mia situazione è improbabile che trovi. Lo preferirei perché in quella circostanza potrei valorizzare quello che ho da dare dando una mano a tutte le altre che metteranno in comune altre competenze e altre capacità che sicuramente io non ho.
Un discorso politico che comprenda la malattia delle donne dovrebbe essere scisso dalla necessità di presenza di una famiglia così come lo Stato comanda. Un discorso sul bisogno delle donne dovrebbe essere fatto concentrandosi sulle esigenze individuali di queste donne e non su quanto esse possano pesare al nucleo familiare. Dovrebbe essere un discorso che parli dell’autonomia di queste donne e che allo stesso tempo liberi altre donne della famiglia di appartenenza della disabile dal ruolo di badantaggio obbligatorio. Dovrebbe essere un ragionamento che smetta di pietire il badantaggio anche dai mariti, figli, fratelli, per una questione di pari opportunità perché l’assistenza dovrebbe essere realmente concepita come qualcosa che tenga conto delle scelte e delle necessità dei singoli individui senza considerarli come prolungamento naturale (per cultura cattolica) della sacra famiglia.
Avrei molte altre cose da dire su questo ma mi fermo qui perché penso che tutte abbiate qualcosa da dire e che questo è un discorso da fare collettivamente. Quindi augurandovi un buon 8 Marzo vi chiedo di esprimervi e di dire qualunque cosa vi venga in mente su questi argomenti.
Eretica Antonella
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Update: mi segnalano questo comunicato che condivido:
L’#8marzo Non Una Di Meno organizza manifestazioni e cortei in tantissime città d’Italia (https://fb.me/e/eUn0RFZMo). Ancora una volta, dunque, saremo in piazza per portare le nostre parole e i nostri corpi nello spazio pubblico.
Sappiamo bene, però, che la piazza non sarà mai per tuttə: per le persone malate, invalide o disabili, che soffrono di agorafobia o in altre condizioni di fragilità, non è proprio possibile uscire di casa e prendere parte ad un presidio e, ancor meno, un corteo. Come scrive Johanna Hedva nella “Teoria della donna malata”: “Come si fa a lanciare un mattone contro le vetrine di una banca se non puoi alzarti dal letto?”.
Poiché rifiutiamo l’abilismo imposto dalla nostra società, abbiamo pensato di occupare anche la “piazza” virtuale dei social attraverso un’azione collettiva da attuare nella giornata dell’8 marzo.
Vi chiediamo di postare in mattinata questa immagine e di scrivere un breve post in cui spiegate quali sono le ragioni per cui aderite alle mobilitazioni indette da Non Una Di Meno.
#8M#8marzo#abilismo#vulnerabilità#piazza#social#scioperofemminista

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Il discorso della “retorica” purtroppo è ancora validissimo al giorno d’oggi. E’ un grosso problema. Intendo: dire di essere in un modo, mentre si è in un altro; sostenere dei principi per partito preso, ma essere incapaci di applicarli. E anche la Sinistra è sempre stata molto retorica e dunque non immune a questi problemi. Quando idealizzava per esempio la Cina, l’URSS, Cuba o qualcos’altro. Tu stessa hai ricordato gente di Sinistra che era in un modo quando parlava teoricamente di qualcosa, mentre magari nella realtà era il suo opposto. Oggi… vabbè neppure esiste più la Sinistra. Una Sinistra che non fa niente quando un governo promulga leggi fasciste (con la scusa della pandemia). Puah! Che schifo!
Detto questo, ovviamente non sto dicendo che la Destra sia migliore, figuriamoci…