Scritto da Gracey sul suo blog Street Hooker. Tradotto da Antonella del Gruppo di lavoro Abbatto i Muri.
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Sono convinta che il sex work sia una benedizione o una maledizione; talvolta entrambe le cose e questo vale anche per l’impatto che questo lavoro ha sulla salute mentale. Come la maggior parte degli argomenti controversi che riguardano il sex work, a nessuno piace parlarne per paura di sentirsi dire che stiamo dando vantaggi alle SWERF. Non possiamo negare che a volte c’è del vero in quello che dicono, però. Non sono d’accordo con quelle statistiche, peraltro smentite, sul disturbo da stress post-traumatico che le SWERF diffondono in giro; il sex work però può davvero mettere a dura prova la nostra salute mentale. Questa cosa è ancora più vera se parliamo di chi il sex worker lo fa per sopravvivere, chi sente di avere meno scelta, più rabbia e si sente intrappolata in quella che io chiamo la gabbia del lavoro sessuale. Di recente ho letto il libro del progetto Untold Stories, che è una raccolta di pensieri, storie, immagini e poesie delle sex worker di strada di Hull. L’ho adorato perché loro si sono espresse in maniera diretta, “così com’è” e questo include tutta certa merda terribile che deriva dal sex work o dell’impatto che ha su di te. Hanno affrontato ogni sorta di argomento sul sex work e giustamente hanno hanno parlato di quel che pensano, sentono e delle loro esperienze. Mentre lo leggevo, mi sono trovata ad annuire con la testa alle parti peggiori, sapendo benissimo che forse non avrei potuto esprimermi pubblicamente, essere totalmente sincera sull’essere d’accordo con queste cose. Temo che da un lato le sex workers potrebbero arrabbiarsi con me perché sto dando alle SWERF quello che vogliono; dall’altro è anche difficile esporsi sulla propria salute mentale, in balìa di chiunque voglia criticare.
Un’altra paura è che sarò vista di nuovo come una vittima e, per estensione, che anche tutte le sex worker siano trattate da tali. La vittimizzazione delle sex worker è qualcosa che odio, perché in realtà le prostitute sono molto resilienti e piene di risorse. Allo stesso tempo, tuttavia, non possiamo semplicemente comportarci come se tutto andasse bene. Dà l’impressione sbagliata e dimostra che dobbiamo a tutti i costi essere forti, coraggiose e superare tutto. Questo può provocare ancora più danni alla nostra salute mentale. Parlare di come ci si sente o di ciò che hai vissuto senza preoccuparsi di ciò che potrebbe dire una radfem. Quando si tratta di lavoro sessuale, tiriamo costantemente fuori argomenti da marketing, ma certe cose sono lontane dalla realtà, di come stanno le cose per alcune persone.
Chiudere con l’idea dell’empowerment.
Sappiamo tutte che descrivere il lavoro sessuale come empowering è irrilevante, perché nessun altro lavoro sarebbe descritto o giustificato in quanto tale. Tuttavia, quando si tratta di salute mentale nel sex work, si arriva all’estremo opposto. Le sex worker si esprimono con entusiasmo di come il lavoro sessuale consenta loro di gestire la propria salute mentale, ma c’è poco spazio per il discorso opposto. Ci sono stati momenti in cui il sex work è stato la soluzione anche per me, e se funziona per chiunque altra, non posso che sostenerla.
Sono stata in grado di cercare un sostegno terapeutico, pagarlo e avere il tempo di seguirlo proprio grazie al sex work. Mi ha anche permesso l’acquisto di molti libri di autoeducazione psicologica e di avere il tempo di leggerli; tutto grazie al lavoro sessuale. So che quando ho lavorato in un lavoro “da civile”, non ero in grado di gestire, permettermi o avere il tempo per tutto questo. Vale la pena dire comunque che il motivo principale per cui sono approdata alla terapia, è stato proprio il sex work, grazie al sex work. Il progetto locale di supporto a chi lavora nel sex work ha infatti uno specialista di salute mentale e ha anche contatti con il counseling locale per le donne, counseling cui faccio parte. Anch’io ho spesso problemi di salute mentale, tipo l’ignorare la mia assistente quando bussa alla porta perché non ho voglia di vedere o parlare con nessuno. Non vorrei più parlare di lavoro sessuale; ne ho abbastanza. Ho parlato apertamente di quanto non mi piace il sex work, di come ha avuto un impatto sulla mia salute mentale e perché è forse uno dei motivi principali per cui desidero uscirne. Anche se raramente è un argomento di cui parlo pubblicamente.
Ho postato su Twitter “possiamo parlare di come il lavoro sessuale può effettivamente essere dannoso anche per la tua salute mentale” e ho ricevuto una risposta forte. Mi sentivo come se stessi allungando il piede e controllando l’acqua, perché non è davvero un argomento di cui le sex worker amano discutere, almeno non i lati negativi di tutto questo. Ci sono state risposte che hanno fatto eco alle mie parole: è stato detto che il discorso sull’empowerment impedisce alle persone di parlare; di come si abbia paura di fare un favore alle abolizioniste; della paura di essere attaccate per aver parlato; dei costi mentali alti del lavoro sessuale e dell’essere oneste riguardo ai lati negativi. Ho anche ricevuto messaggi privati che parlavano di esperienze simili, ed è stato abbastanza brutto.
La comunità del sex work è giustamente orgogliosa del supporto reciproco, ma siamo altrettanto pronte a evitare certi argomenti e a censurarci a vicenda, perché temiamo di ricevere ancora più attacchi. Un sentire che è stato ripreso da Ginger Banks, che di recente ha twittato del fatto che molte le avevano detto di abusi nel settore, ma avevano paura di parlarne apertamente per non lasciare che i gruppi anti-sex le utilizzassero strumentalmente. Mi oppongo ferocemente all’uso delle nostre voci e credo che ognuna dovrebbe parlare delle proprie esperienze; il problema sta infatti nelle persone che usano le nostre parole come arma, non nella persona che ne parla. Posso capire perché le persone attacchino chi parla e non riesco a credere che le persone lo facciano per pura malizia, ma dobbiamo capire che stamo dando addosso alle persone sbagliate.
C’è del vero in quello che dicono le SWERF?
La risposta breve è sì. Il lavoro sessuale può essere terribile per la tua salute mentale. Naturalmente, la discussione è più complessa e sfumata di così, ed è sbagliato applicare lo stesso concetto a tutte le sex worker.
Molte dicono che il sex work è una benedizione per la loro salute mentale e quindi in base alle loro esperienze non troveranno le giuste assonanze in questo articolo. Semplicemente non dovremmo applicare definizioni generiche a tutto il lavoro. Vale la pena ribadire: le statistiche che le radfem fanno girare sul disturbo da stress post-traumatico e a tutto ciò che ne consegue sono state pesantemente smentite. Sarebbe meglio parlare con le vere lavoratrici del sesso e lasciare che siano loro a dire delle proprie esperienze. Amo particolarmente il contributo di Deborah nel libro, soprattutto perché è diretta, aperta e molto sincera. Il lavoro sessuale è lavoro e merita gli stessi diritti di qualsiasi altro settore, ma non è proprio come gli altri lavori. So che verrò accusata di essere una stronza per aver detto questo, come se ci stessi “spingendo ai margini”. Capisco e mi assumo il rischio, perché dobbiamo riconoscere che il lavoro sessuale è diverso in molti modi.
In nessun altro lavoro devi considerare che potresti essere uccisa, hai flashback di stupri o prendi una gran quantità di droghe per stordirti e far fronte al tuo lavoro. A volte penso che sia un insulto paragonarlo a un lavoro “da civili” perché minimizza tutto ciò che il sex work implica – lo stigma, il pericolo, i rischi e la sua storia. Inoltre, nessuno è escluso dai certi servizi semplicemente perché è terapeuta, ingegnere, direttore di banca; esiste una discriminazione specifica che colpisce le sex worker. Infine, è notoriamente difficile lasciare il lavoro sessuale e non ci sono nemmeno barriere d’ingresso. Mi rendo conto che questo potrebbe non essere un percorso di pensiero comune, quindi accoglierò volentieri ogni osservazione al riguardo. Io sedevo con donne che fumavano crack prima di lavorare e io stessa usavo droghe prima di lavorare, perché sapevamo cosa ci aspettava. A nessuna di noi piaceva lavorare. A volte siamo state aggredite, violentate, derubate o picchiate. Come può questo non avere un impatto sulla tua salute mentale? Come si può non essere arrabbiate per aver visto le nostre amiche morire di overdose, bere di tutto fino a dimenticare sé stesse o chi ci aveva ammazzato un’amica. Siamo state tutte vicine nella paura e nella consapevolezza dei pericoli del nostro lavoro.
C’è una verità non detta su ciò che comporta tutto questo. Essere costantemente in allerta non fa molto bene alla tua salute mentale e nemmeno l’assunzione di sostanze aiuta. Il sex work di sopravvivenza può essere anche peggio per la tua salute mentale perché ti senti meno in grado di scappare. Per la maggior parte delle sex work, i guadagni elevati possono dare opportunità di finanziarsi istruzione, lezioni di guida, terapia o forse corsi di formazione per un lavoro specifico. Avere soldi ti permette di avere più libertà e opportunità nella vita. Quando vieni consumata dalla sopravvivenza, invece, semplicemente non ce la fai ad arrivare al livello successivo. Quando lavori per pagarti una dipendenza, quella è sopravvivenza e basta e quel che è peggio è che alla fine non ti rimane niente tra le mani. Il ciclo continua e può abbatterti e farti sentire una merda. Le sex worker di sopravvivenza generalmente non si siedono a tavolino con un programma in cui decidono di “diventare sex worker”: sono spinte da circostanze disperate; povertà, dipendenza, status di immigrazione, discriminazione sistemica o disuguaglianze strutturali.
Acune hanno visto la propria mamma fare la prostituta ed è stato naturale per loro diventarlo. Ho parlato nei post precedenti dei blog dell’impatto che le modalità di sopravvivenza hanno su di te, anche dopo che ne sei uscita. Gli effetti sono di lunga durata. Dobbiamo qui ricordare che alcune radfem sono state esse stesse sex workers. Il punto centrale dei loro discorsi ed esperienze è che il sex work è stato terribile per la loro salute mentale; loro si sentivano violentate e non lo augurano a nessun altra. Sebbene io non sia per niente d’accordo con il loro sostegno al Modello Nordico, non sono qui per parlare delle loro esperienze. Più gridiamo loro contro e diciamo “stai mentendo” o “non è vero”, più loro sostengono che le escludiamo ignorando le loro esperienze.
Avrebbero ragione. In effetti, mi sono seduta e ho ascoltato le donne che dicevano che si sentivano come pezzi di carne o quelle che si sono lavate il corpo con la candeggina perché si sentivano disgustose dopo aver lavorato. Chi sono io per dire loro che si sbagliano su come si sentono? Mi siedo e le ascolto. Cerco di costruire con loro un rapporto di fiducia piuttosto che dire loro che non va bene, cerco di sostenerle nel miglior modo possibile.
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Indubbiamente, un articolo interessante e pieno di spunti di riflessione. Grazie per la traduzione: non credo sarei riuscito a comprenderlo davvero in lingua originale.