Maria scrive:
Sono con una mia amica. Stiamo passeggiando, chiacchieriamo instancabilmente, ci interrompiamo di continuo, talmente tante sono le cose che vogliamo dirci. Io sono di buon umore, ho appena sostenuto il mio penultimo esame della magistrale, ho deciso di prendermi una serata di pausa dallo studio, andare a bere qualcosa, divertirmi, cercare di svagarmi per allontanare le preoccupazioni di questo momento storico e di questa strana fase della mia vita, in cui mi preparo ad affrontare importanti cambiamenti. Ad un tratto una voce emerge da un gruppo di uomini e mi urla “che sei bella, ci possiamo conoscere?”. “Fottiti, testa di cazzo”, gli urlo. Ne ho subite moltissime, di molestie di questo tipo, nella mia vita, come ciascuna delle mie sorelle. E ciascuna di noi ha sviluppato i propri meccanismi di difesa. Il mio è quello dell’aggressione verbale. “Perché te la prendi così? Ma sei pazza? Ti volevo fare un complimento”.
No, non sono “pazza”, qualunque cosa questo distorto concetto discriminatorio significhi per quella persona. Non sono “pazza”, sono arrabbiata. Sono fottutamente arrabbiata. La gente attorno mi guarda con un certo disappunto. Mi rattristo. Eccola, quella reazione che, da femminista, non vorrei mai provare. Vorrei sentirmi forte, sempre coraggiosa, combattere con la spada sguainata, non lasciare che questo possa turbarmi, bensì darmi ancora più forza per continuare a lottare. Lui chiama “complimento” la sua indesiderata invasione della mia serata, del mio tempo, del mio divertimento. Lui definisce “complimento” l’avermi implicitamente detto “tu stai camminando sulla mia strada, io esercito un potere sulle persone che camminano su quell’asfalto, posso commentarne l’aspetto, giudicarle, posso lanciare fischi e posso anche pretendere che siano di loro gradimento”. No, non è un complimento. È la volontà di umiliare, di sminuire, di ridurre ad oggetto. Oggetto da commentare, corpo senza anima che esiste solo affinché gli uomini possano commentarlo. Questo è ciò a cui si cerca ancora di ridurre il corpo delle donne. Quelle molestie sono definite “complimenti” perché si pretende che il corpo delle donne esista per compiacere lo sguardo maschile e nulla di meglio potremmo augurarci che essere oggetto delle loro attenzioni quando usciamo di casa. D’altronde, il caso Morelli ci ha mostrato chiaramente come si vorrebbe che le donne vivessero il rapporto con il proprio corpo, con gli uomini e con gli spazi cittadini.
Quando sono uscita con dei maschi, nessuno mi ha mai rivolto quelle parole. Che fosse mio fratello, che fosse il mio ragazzo, che fosse un amico o un frequentante, non faceva differenza. Il tacito accordo maschile prevede che la donna, in quel momento, si trovi sotto l’ala protettrice di un altro maschio, che ha su di lei potere e controllo e che deve garantirne l’incolumità. Violando la donna che cammina con un altro uomo si violerebbe la solidità della maschilità dell’uomo che sta con lei, poiché violandola si metterebbe in discussione la sua virile capacità di proteggerla. Faresti un torto all’uomo, non alla donna. Ed ecco che il potere maschile si rafforza, tutti i giorni, attraverso il corpo delle donne.
Ma il mio corpo non esiste perché un maschio possa rafforzare il suo dominio attraverso di esso. Il mio corpo esiste, è libero, non accetta catene, il mio corpo sono io, e io sono del mio corpo. E questo diritto, ognun* di noi, deve pretenderlo, urlarlo, rivendicarlo, sempre.
Maria Mezzatesta
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