Appena visto su Netflix questo documentario, molto ben fatto, che ricostruisce i fatti avvenuti nel 2012 a Steubenville, Ohio. Lo scenario, che abbiamo più volte, purtroppo, riscontrato in casi italici che conosciamo bene, è sempre lo stesso. Una ragazza si fida di uno del gruppo, pensa che lei gli piaccia, lo segue, beve, viene ridotta all’incoscienza senza che nessuno si chieda se non sia il momento di assisterla e accompagnarla a casa, viene portata in un luogo in cui è possibile darsi alla pazza gioia e poi viene stuprata da un branco di esecutori, di reporter che fanno foto per documentare l’evento e videomaker che si assicurino che ci sia un video che testimoni la faccenda.
Il branco commenta sui social, condivide foto e video, qualcuno si rende conto che potrebbero mettersi nei guai e allora cancellano ma c’è chi ha fatto degli screenshot e ripubblica tutto tutelando l’identità della vittima. La città si scaglia contro la blogger che scopre le conversazioni in cui si confessa il fatto e stanno tutti lì a dare della puttana irresponsabile alla vittima e a proteggere gli stupratori, vanto cittadino perché giocatori della locale squadra di football.
La discussione sulla faccenda diventa un processo alla vittima e tutto pare sparire fino a che qualcuno non coinvolge la stampa nazionale. Non solo. Gli attivisti di Anonymous beccano un video in un cellulare di uno dei compagni di gioco degli stupratori in cui un gruppo di amici ridono e scherzano sul fatto che in un’altra casa c’è chi sta scopando con una “morta”. Il video è agghiacciante e così agghiaccianti sono i commenti di gente del luogo, di persone responsabili dell’istituzione scolastica e della squadra di football della quale fanno parte gli stupratori, di familiari e amici e amiche del gruppetto di idioti intenti a diffondere cultura dello stupro.
Lei ubriaca, non poteva dare o negare il consenso, e il gruppo l’ha portata a fare quello che chiamano il “trenino”. C’è quello che la stupra davanti e l’altro dietro, per capirci. Nel frattempo lei è svenuta, inerme e il giorno dopo non ricorda niente e anzi scopre quello che le è successo dai commenti sui social di tutti i compagnoni degli stupratori.
La polizia del luogo fatica a organizzare un’indagine perché all’inizio non ha idea del fatto che il percorso sui social costituisce una prova scritta, fotografata e filmata. Gli stupratori non si rendono conto del fatto che non solo si stanno sputtanando in rete ma che stanno divulgando immagini pedopornografiche dato che la ragazza è minorenne.
Ma il movimento nazionale di persone che si muove per andare a sostenere la ragazza in quel luogo provinciale e stracolmo di pregiudizi si ritrova per strada, in piazza, davanti al tribunale a contestare chiunque stia coprendo la faccenda. Solo dopo un anno vengono processati i ragazzi, condannati ad un anno di prigione minorile più un altro anno per diffusione di immagini pedopornografiche, e dopo due anni vengono processati quattro adulti responsabili dell’istituzione scolastica e della squadra di football perché a quanto pare sapevano che il fatto era già avvenuto mesi prima con un’altra ragazzina di 14 anni. Gli adulti sono stati condannati o segnati dalla vicenda. Gli stupratori della quattordicenne non sono mai stati processati (uno era lo stesso già condannato per i fatti del 2012) e tantomeno condannati.
Il documentario mostra come una manifestazione possa dare coraggio a tante ragazze che una ad una sono salite sul palco a raccontare di aver subito uno stupro, a svelare la vergogna provata e le accuse subite. Mostra anche come sia necessario educare i ragazzi a non seguire la cultura dello stupro. Il fatto è che se hai coach e famiglia che omertosamente ti proteggono e dicono che la colpa è della vittima c’è poco da poter imparare. Vanno educati tutti e dunque secondo me hanno fatto bene ad accusare gli adulti sebbene in un secondo momento.
I genitori che proteggono i figli maschi dando delle troie alle ragazze, convinti che sono loro a provocare i gentili e innocenti fanciulli, avrebbero bisogno di stare a fare volontariato in un centro per donne maltrattate almeno per una decina d’anni. La blogger che coraggiosamente ha pubblicato le screen è stata accusata di strumentalizzazione e molto altro anche se senza di lei non si sarebbe scoperto nulla. Per chi fa giornalismo di inchiesta va bene ricostruire i retroscena di certi crimini. Mi chiedo però se non valesse la pena passare prima quelle prove alla polizia. In ogni caso grande solidarietà a lei che ha subito minacce e insulti oltre una denuncia di diffamazione che immagino non sarà andata in porto.
Ecco, vi suggerisco di vedere questo documentario. Poi raccontatemi se non ritrovate anche qui, da noi, comportamenti come questi.
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L’ha ripubblicato su O capitano! Mio capitano!….