
Articolo di Victoria Gallardo.
[In lingua originale QUI. Traduzione di Camilla del gruppo Abbatto i Muri]
Storicamente legata al genere maschile, la scena urbana è una tela attraverso cui reclamare il lavoro della figura femminile
Cinque anni fa, la rivista National Geographic ha diffuso una ricerca di Dean Snow, archeologo dell’Università della Pennsylvania. L’oggetto della sua ricerca furono le pitture rupestri di otto grotte di Francia e Spagna. Il risultato delle sue indagini lo condusse alle seguenti conclusioni: comparando la misura dei palmi delle mani e la lunghezza di alcune dita, Snow dedusse che il 75% delle tracce erano femminili. Lungo la storia, la figura della donna è stata ridotta a sola comparsa nei più disparati ambiti, fra i quali l’arte non ha fatto eccezione. Però le donne sono sempre state là. Non come avversarie, né nemiche, piuttosto come quello che davvero sono: simili.
Poco a poco, questa uguaglianza inizia a farsi più tangibile, più reale. In contesti di arte urbana e graffiti, se prima la presenza della donna era aneddotica, adesso è la normalità. “Storicamente la donna è stata considerata come soggetto passivo e secondario. Questo non vuol dire che non ci siano state creatrici. Non appaiono nei libri di storia dell’arte perché la storia, non solo l’arte, è stata sempre scritta da una prospettiva eteropatriarcale. Tutto ciò che non era stato creato da uomini bianchi eterosessuali non esisteva”, sostengono le ragazze del collettivo La Rueda Invertida.
Sparse per la geografia spagnola e all’estero, Sara Rojo e la sua omonima Sara Calderón, Julia Sáenz, Paula Naya, Agustina Cozzani e Kika sono sei personalità piene d’inquietudini e piene di sfumature. Non si identificano totalmente con il termine writers né si circoscrivono a un unico campo di azione. L’educazione artistica nei musei, la multiculturalità, l’esclusione sociale o la mediazione culturale sono alcune delle cause di cui si occupano.

Per tutte loro, la progressiva visibilizzazione artistica delle donne non ha altra origine che non sia il femminismo, il suo motore a reazione risiede nella sorellanza come compagne. “La lotta femminista ha reso possibile il fatto che oggi la donna possa considerarsi ed essere considerata come autrice con voce e identità propria”, affermano.
Similmente si esprime la barcellonese Andrea Michaelsson, i cui interventi colorati si leggono celati sotto il suo alias Btoy. “Parte della mia opera è dedicata a illustrare questa invisibilità latente del ruolo della donna creatrice, aprire il vaso di Pandora e ripresentare alla società il fatto che ci sono state donne capaci, che hanno dato un punto di vista valido più di quanto non sia stato ammesso nella nostra cultura”, sentenzia.
MOLTO PIÚ CHE MUSE
Da Elizabeth Taylor a Maureen O’Hara, passando per Frida Kalho o Amy Winehouse, i nomi femminili sono, nel proprio campo, protagonisti quasi assoluti. Per questo la grandezza di questi nomi è totalmente dissonante dalla percezione di un periodo storico in cui “il ruolo della donna come musa corrispondeva alla visione reificata del sesso femminile. Allo stesso modo in cui si dipingeva una bella natura morta, si dipingeva una bella donna”, sostengono le attiviste de la Rueda Invertida.
Per alzare la voce e avere polso fermo, nel panorama nazionale, figure come María, che già da 30 anni ha fatto suo il nome Musa 71, mescolano e contorcono le lettere sui muri senza che perdano di senso. Altre artiste come Anna Taratiel ricorrono alle geometrie colorate, mentre la caricatura è il mezzo artistico feticcio di La Tonta el Bote, pseudonimo sotto cui si nasconde la andalusa Verónica Soto. L’accentuazione di alcune caratteristiche è, precisamente, una firma anche nelle opere di Marina Capdevila.
Racconta questa barcellonese che, nonostante “il mondo della street art sia sempre stato visto come una cosa da uomini, questo non vuol dire che le donne non esistano o che il loro lavoro non sia tanto valido quanto quello dei loro compagni. Oggi hanno acquisito più visibilità in questo ambito e, credo che molte donne con inquietudini artistiche, a cui costava maggiormente buttarsi e dipingere per strada, oggi si sentono più a loro agio e lo fanno”.
Assicura che, nell’intento di riconciliare il passante con la quotidianità che lo circonda, cerca di avvicinare l’umorismo alla strada. “Normalmente lavoro con aspetti tipici del quartiere o della città in cui dipingo e li sviluppo, ricorrendo all’esagerazione per generare uno scambio di sorrisi tra la gente e l’opera” argomenta. “Questo umorismo acido che vorrei trasmettere è, in generale, il mio modo di vedere le cose.

Stanca dei cliché sulla bellezza, nel momento in cui cerca ispirazione e modelli, Capdevila confessa che è piuttosto sua nonna a essere la sua musa. “Ho paura della morte e ho una visione negativa di ciò che implica l’invecchiare. Dipingere nonne che sono vitali a 80 anni mi aiuta a rendere più positiva la mia visione della vecchiaia. É un modo di materializzare il futuro che vorrei vivere”, afferma.
Però, perché per strada? Glorificato da alcuni e criticato da altri, il contesto urbano come scenario non è mai stato fuori dal dibattito e nemmeno escluso dalle polemiche.
Nel suo caso, Capdevilla assicura che l’affanno per far ridere le persone che la circondano è una delle caratteristiche del suo carattere e che, se con le sue opere può far ridere un pubblico più ampio, tanto meglio. Però non vale tutto. “Dipingere in strada non è sinonimo immediato di arte. Bisogna che ci sia un’intenzione da parte dell’autore, un voler trasmettere, un voler generare un concetto o un discorso. Ugualmente, credo che chi definisce le opere nello spazio pubblico come arte sono le istituzioni e i galleristi, che quindi legittimano l’opera, la includono in un circuito artistico e le attribuiscono un certo valore.
Per Btoy “empowerment significa prendere una parete e reclamare boccate di libertà, forza e allegria nei quartieri dove abbonda il grigio in molti aspetti. Qualcosa apparentemente così semplice può unire e riesce costruire dialoghi di dignità, identità e uguaglianza.”.
“La strada significa la democratizzazione dell’arte. Esporre in una galleria significa portarsi un lavoro fatto a casa e aspettare un pubblico che viene di propria iniziativa a vederlo”, affermano le esponenti de la Rueda Invertida. “Noi non scartiamo il museo o la galleria come spazi espositivi”, puntualizzano. “Sono diversi e in altri momenti ci siamo appoggiate e questi spazi, pero pensiamo che siano tuttavia spazi per un’elite non solo di artisti, ma anche di spettatori. La strada si differenzia per l’apertura vera al pubblico. Quando creiamo in strada, siamo coscienti che questa opera, una volta terminata, smette di essere nostra per essere di tutto quello che passa da là”.
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