Nel mio luogo di origine c’era un tizio che faceva catechismo e che si fidanzò, lui ventottenne, con una ragazza di tredici anni, vergine, sicché lui non correva il rischio di vivere con il timore di paragoni. In generale questa era la normalità, e non parlo di certo del dopoguerra. E’ un tempo molto più recente quello a cui mi riferisco. Ma quel che i maschi dicevano era che le femmine bisognava “allevarle” ovvero prenderle ancora giovani e poi crescerle per avere la certezza che quelle ragazze non avrebbero mai pensato ad un altro in termini sessuali. Una mia compagna di scuola a tredici anni era fidanzata con un uomo di trenta già laureato e specializzato in qualche campo della medicina. Era l’unica tra noi ad avere rapporti sessuali a quell’età e la famiglia di lei era d’accordo perché lui era un dottore e lei così aveva il futuro assicurato. Quindi al diavolo tutto quando c’era dii mezzo un buon partito. A quattordici anni io mi fidanzai con un ventunenne, io al liceo e lui all’università, e dopo un po’ già parlava di matrimonio prima che anch’io andassi all’università. C’era il pregiudizio secondo il quale le ragazze che andavano all’università sarebbero diventate non-oneste, un po’ zoccole diciamo. Perciò il maschio/alpha, per assicurarsene la proprietà, doveva battere gli altri sul tempo. Ovviamente dissi “è stato bello ma ciao!“.
Un bel giorno si seppe che un ragazzo di quattordici anni aveva intrattenuto rapporti con un trentenne (non era il suo insegnante né il suo coach o altro). Era una faccenda di gaytudine e immaginate come fu percepita dalla comunità. Quello che sembrava normale per le ragazze non era considerato affatto normale per i ragazzi omosessuali. Si aprì la caccia alle streghe e a nulla valse il fatto che il ragazzo si dicesse innamorato del trentenne e viceversa. Quando c’era di mezzo una relazione non accettata socialmente la bocciatura era unanime. I genitori del ragazzo sporsero denuncia, l’uomo dovette lasciare tutto e andarsene altrove, il ragazzo impiegò molto tempo prima di poter dire che la gaytudine non era contagiosa e che lui non era stato circuito dall’uomo. I genitori provarono a tutelarlo ma per le ragioni sbagliate. Non perché preoccupati per un possibile abuso ma perché non potevano sopportare che il ragazzo fosse gay. Tutto sarebbe stato diverso se lui avesse portato a casa dai genitori una dolce fanciulla.
Questo per dire che la questione dell’età del consenso è stata usata spesso per ragioni di comodo ovvero quando c’era da prendere le distanze da una situazione imbarazzante. Diversamente l’ipocrisia regnava sovrana. La legge era e talvolta è ancora la legittimazione della disapprovazione sociale. Un mezzo di controllo morale e non a tutela delle persone indifese. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la vicenda della donna trentacinquenne coinvolta in una relazione con un quattordicenne. Ma questo è il contesto. Anzi di più: il contesto è quello per cui tingere di rosa la statua di Indro Montanelli, il quale rivendicò un atto di pedofilia su una dodicenne comprata durante una delle campagne fasciste in Africa, sembra essere più grave dell’atto di pedofilia stessa. Lui è un grande uomo, si dice che non possa essere giudicato per un singolo gesto e che le femministe abbiano commesso un grave atto di vandalismo. Negli stessi giorni però i toni della discussione su quello che è capitato alla trentacinquenne e al quattordicenne assumono ritmi diversi. In questo caso non ci sono dubbi: lei avrebbe commesso un abuso.
Quello che di questa vicenda non si capisce è il perché la donna abbia confessato al ragazzino della sua paternità di un bimbo nato ormai da cinque mesi e riconosciuto dal marito della donna. Perché dirglielo? Perché metterlo così in difficoltà? Perciò, da quel che dicono le fonti di informazione, il ragazzo avrebbe chiesto aiuto alla famiglia che ha giustamente sporto querela contro la donna. Il test del Dna, richiesto dalla donna, è risultato positivo per corrispondenza con l’adolescente. E di tutta questa faccenda a me resta l’impressione di un sistema legislativo totalmente inadeguato quando si parla di riconoscimento della paternità. C’è stato un tempo in cui era obbligatorio perché gli uomini se ne fregavano e le donne non avevano il controllo sulle proprie capacità riproduttive ma, oggi, se resti incinta tutto avviene in maniera, per lo più, meno coercitiva e allora il punto non è impedire all’uomo di lavarsene le mani ma di consentire una scelta anche a lui. Lei può scegliere di fare un figlio oppure no. Il ragazzo che scelta ha avuto quando lei ha portato avanti la gravidanza senza dirglielo? In questo caso – se si riconosce l’abuso e perché è un minore – egli è tutelato dalla legge. Può riconoscerlo oppure no ma quel figlio resta e quando sarà grande potrà voler incontrare il padre biologico e quindi tutto resta confuso. Se la situazione fosse stata diversa perché non pensare ad una possibilità di scelta dell’uomo? Lui non può e non deve decidere sul fatto che lei continui la gravidanza o meno ma potrebbe decidere se quella paternità è ciò che desidera per se stesso oppure no. Questo mi sembra il tema che viene fuori prepotentemente da questa storia.
Come finirà dal punto di vista legale lo decideranno i giudici ma dal punto di vista morale io vedo un ragazzo gravemente messo in difficoltà da una donna irresponsabile. Non la giudico. Non è mio compito ma non posso fare a meno di pensare che se fossi stata nei suoi panni non avrei fatto quello che ha fatto lei. Non avrei fatto sesso con un mio alunno, non avrei portato avanti una gravidanza frutto di quel rapporto e non avrei sfasciato la vita di quel ragazzo per via di una mia egoistica scelta. Credo sia questo che fa la differenza tra adulti e adolescenti. La responsabilità, il fatto di pensare alle conseguenze, alle ferite che si infliggono alle persone che ci amano. Altrimenti mi chiedo chi tra i due fosse più adolescente dell’altro.
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Oltretutto un altro tema che emerge è la gogna a cui si sottopone il marito, che aveva riconosciuto il bambino.
Mi sembra che in tutta la storia non vengano tutelate le parti veramente deboli: il bambino appena nato, il marito ingannato (che immagino non sapesse, e quindi ha assunto la paternità sulla base di una menzogna) e il minore quattordicenne. Direi in quest’ordine.
Invece mi sembra che come al solito si cerchi l’aspetto morboso della vicenda, per fare ascolti senza veramente pensare che dietro ci sono delle vite umane da proteggere.