
di Lorelei Mihala& Romina Vinci (articolo in lingua originale QUI. Traduzione di Nadia e Naomi del Gruppo Abbatto i Muri)
Le rumene si prendono cura degli anziani in Italia ma le lunghe ore, la solitudine e il maltrattamento portano a problemi di salute mentale.
Iasi, Romania e Roma, Italia – In una piccola stanza presso l’ospedale psichiatrico Socola a Iasi, la più grande struttura psichiatrica in Romania, Ana guarda in basso. Ha una voce forte ma combatte per mantenere un contatto visivo.
Una ex paziente alla quale è stata diagnosticata la depressione. I medici hanno detto di avere un caso di “sindrome dell’Italia”, un termine usato nel paese dell’Europa orientale per i problemi di salute mentale acquisiti dopo aver lavorato come badante in Italia.
“Avevo molta paura di fare le scale” ha detto Ana, 49 anni, che ha lasciato la Romania per l’Italia nel 2003. “Quando dovevo attraversare la strada, avevo paura, e chiedevo: “per favore, mi puoi aiutare?”
“Avevo paura di uscire da sola.”
Inizialmente è stato difficile decidere se lasciare i suoi figli – uno dei suoi figli aveva appena due anni quando è emigrata – ma era l’unico modo per fare soldi.
I figli sono stati cresciuti dal padre con i soldi che Ana aveva inviato lavorando come “badante”, la parola italiana usata per le donne che si prendono cura degli anziani.
“Pesavo 58 kg”, ha detto. “Dopo due mesi ero 48 kg”.
Una datrice di lavoro, una donna di 94 anni, “le parlava male”.
“Non riuscivo a dormire durante la notte, è stato un duro lavoro, ma non ho detto nulla”, ha detto Ana.
Dato che era sola in Italia, non usciva durante le sue poche ore libere.
In Romania sua marito sperperava i soldi che lei stava mandando. Così successivamente, Ana delegò le responsabilità finanziarie alla sorella. Nel 2012 divorziò. 15 anni dopo aver lasciato la Romania, ritornò, non riuscendo più a sopportare la vita in Italia.
In tv vide un servizio sulla sindrome dell’Italia e riconoscendo i sintomi andò a vedere un medico.
“La sindrome italiana è un fenomeno socio-sanitario”, ha detto Andreea Nester, psichiatra dell’ospedale Socola. “Il più delle volte, è una forma di depressione caratterizzata da ansia, apatia, astenia psichica e fisica, stati disattenti, insonnia associata e una disposizione profondamente triste, impressa da un sentimento di alienazione”.
Ha spiegato che ci sono diversi fattori principali.
“È la vulnerabilità genetica di ogni persona che emigra … peggiora vivendo in un nuovo paese con altre culture, con altre tradizioni, non conoscendo la lingua”.
“La sindrome dell’Italia non è una diagnosi scientificamente riconosciuta”, ha detto Donatella Cozzi, ricercatrice dell’Università di Udine, che ha visitato la città della Romania orientale di Iasi per studiare il fenomeno. “Il termine è stato inventato da due psichiatri ucraini nel 2005. È composto da stress fisico e psicologico”.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, tra il 2007 e il 2017, circa 3,4 milioni di romeni hanno lasciato il paese, rappresentando il 17% della popolazione – il secondo più alto tasso di migrazione dopo la guerra in Siria.
Tania Carnuta ha lavorato in Italia dal 2006. Una madre di quattro figli, il marito di Carnuta ha recentemente deciso di divorziare da lei, dopo 30 anni di matrimonio. “La sindrome dell’Italia inizia a casa”, ha detto. “Cominciano a guardarti come se fossi un ATM, un bancomat.
“Sei stressato qui dal lavoro e chiami casa per calmarti, per parlare del tuo dolore, ma quelli a casa non ti capiscono.”
In Italia, il rapporto di Carnuta con la sua datrice di lavoro si è deteriorato quando lei ha iniziato a reclamare ciò che le spetterebbe di diritto: un contratto di lavoro, ferie, denaro per acquistare del cibo, l’aumento che le era stato promesso.
“Ho lavorato con un contratto per tre anni, il resto del tempo sono stata irregolare. Lo stato Italiano lo permette, non c’è nessun controllo”, denuncia ad Al Jazeera. “Non possiamo sporgere denuncia, lamentarci, o verremmo licenziate automaticamente. Bisogna stare zitte e sopportare qualunque cosa dicano”.
Quest’anno Carnuta è stata licenziata da quello che è stato il suo datore di lavoro per oltre dodici anni. “Non ho mai pensato di avere questa sindrome dell’Italia fino a quando non ho lasciato il lavoro, racconta. Per contratto avrebbe dovuto lavorare quaranta ore a settimana, ma in realtà questo non accadeva perché Carnuta viveva con il suo datore di lavoro.
Claudio Piccinini, coordinatore del Patronato INCA-CGIL, fa notare che secondo l’INPS in Italia ci sono 800,000 persone che lavorano come “badanti” senza un regolare contratto di lavoro.
La domanda per i loro servizi è alta in un Paese con 13,4 milioni di anziani, considerato dall’ONU il terzo al mondo per aspettativa di vita.
“C’è una mancanza di flessibilità in questo tipo di impiego, ad esempio non esiste la formula del part-time”, dice Piccinini. “Spesso c’è un malinteso sul significato di vitto e alloggio: in teoria, la famiglia dovrebbe provvedere per i pasti e un posto letto destinati alla dipendente, la quale dovrebbe avere l’intera notte libera. Gli orari di lavoro dovrebbero essere rispettati” spiega Maddalena D’aprile, da un’agenzia di collocamento di Roma. Secondo la sua esperienza, gli abusi si verificano da entrambe le parti.
“Da parte delle famiglie, c’è molto spesso una tendenza ad abusare delle proprie impiegate, ad aspettarsi troppo da loro, a non provvedere una sistemazione adeguata o a non dar loro abbastanza cibo. Ma abbiamo sentito di cose terribili anche da parte delle lavoratrici – ad esempio sappiamo di persone che sedavano gli anziani per tenerli tranquilli”.
A Roma, la chiesa di San Pantaleo è un’oasi Romena in cui le donne si raccolgono durante le loro giornate libere per socializzare, scambiarsi consigli e per avere un’occasione di parlare la propria lingua.
“Qui siamo come una famiglia” ci racconta Doina Matei, che si è trasferita in Italia dodici anni fa per problemi economici, per potersi permettere di pagare la retta universitaria di sua figlia.
“Mi urlava contro, mi si rivolgeva in malo modo” ci dice di uno dei suoi datori di lavoro con problemi di alcolismo. Di un altro datore, racconta: “Mi ha tenuta per quattro mesi in un angolo perchè diceva che il pavimento non era splendente. Mi mandava in quell’angolo ogni giorno. Non potevo farci niente, dovevo fare quello che mi diceva”.
Una delle sue amiche, Maria Gradinariu, ha seguito suo figlio in Italia dopo diverse esperienze lavorative in Romania.
“In sedici anni ho perso mia madre, mio marito, i genitori di mio marito, i miei fratelli, e non abbiamo mai potuto essere lì con loro. Ero venuta in cerca di una vita migliore. Abbiamo trovato lavoro, lavoro e solo lavoro”.
La sindrome dell’Italia la sentiamo perché non siamo libere quando vogliamo. Come badanti ci spetta solo il giovedì pomeriggio e la domenica, e anche in quei giorni se hanno bisogno di noi, o se noi abbiamo bisogno di denaro, restiamo a disposizione”.
Tornata a Iesi, Ana oggi lavora nel settore delle vendite e spera di essersi liberata dai sintomi di cui soffriva nel 2010.
“Oggi ho parlato con i miei dottori, adesso mi sento forte”, ci dice. “Non mi lascerò più andare”
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