Anni fa commisi un grave errore. Una mia amica era spavalda, disponibile e sessualmente attiva. Molto più attiva di me. Quando uno stronzo la stuprò mentre lei, ubriaca, stava lì ferma sul pavimento con gli slip strappati, io la accompagnai in ospedale perché non si risvegliava. Era andata in shock per aver bevuto troppo e io sapevo che non era colpa sua ma non potevo fare a meno di guardarla male. L’ho trattata male. Freddamente. Pensavo davvero fosse colpa sua. Quel periodo la lasciai sola e non riuscii a dirle nulla che la facesse sentire meglio. Quando discutemmo della possibilità di denunciare lo stupratore lei disse di no perché non voleva stare sulla bocca di tutti e non voleva avere ripercussioni. La mia rabbia nei suoi confronti aumentò e il perché era semplice: non faceva nulla di quello che io avrei voluto facesse. Ma io non stavo nei suoi panni. Non avevo vissuto quello che aveva vissuto lei. Eppure mi sentivo in diritto di sprecare parole per farla sentire sempre più colpevole.
Poi mi disse che era rimasta incinta, gravida dello stupratore. Voleva abortire ma all’epoca non esistevano neppure i consultori, anche se l’aborto era legale. Lei non voleva andare in ospedale perché in quel posto ci si conosceva un po’ tutti e anche questo l’avrebbe resa un bersaglio di critiche e giudizi. Preferì chiedere dei soldi allo stupratore per abortire presso un privato e in un’altra città. Questo per me fu una specie di tradimento. Perché si era rivolta a lui? Ero troppo egocentrica e ferita per capire che non aveva nessun’altra scelta. Lo ha fatto per sopravvivere e si è comportata come doveva data la situazione in cui si trovava. Lui andò con lei. Io rimasi a casa. Quando la incontrai di nuovo le mie prime parole furono “te la sei voluta” e la sua reazione fu di stanchezza. Era ovvio dato che perfino io le davo contro.
Non ero una stupida ma neppure così intelligente dato che pur ritenendomi una donna progressista e conscia dei miei diritti non sentivo il dovere di trattarla meglio. Da lì ovviamente cominciò il deterioramento della nostra amicizia. Lei si trasferì nella città vicina per andare all’università e io feci lo stesso allontanandomi però di molti chilometri in più rispetto al luogo in cui stava lei. Mi venne a trovare, una volta, rimase con me una settimana e mi raccontò di come quel senso di colpa la schiacciasse ancora e del fatto che a causa del senso di colpa lei si considerava quasi come fosse immondizia. Perciò si cacciava in guai vari. Io non potevo sopportare nulla di ciò che mi raccontava. Troppi uomini, troppe avventure, troppo alcol, troppo di tutto. E dire che ero disinibita e non mi facevo scrupoli nel sesso. Ma chissà perché mi ritenevo superiore. Quello che era successo a lei a me non sarebbe mai potuto accadere. Perché non mi ubriacavo mai, perché mi toccava sempre prendermi cura delle amiche e restare vigile e sveglia per riportarle a casa sane e salve. Mi sentivo frustrata e ancora pensavo alla violenza che lei aveva subito come fosse stata un dispetto fatto a me. Una narcisista, ecco cos’ero.
Un giorno di molti anni dopo mi guardai indietro e mi resi conto di quanto male le avevo fatto. Di come l’avevo lasciata sola e del fatto che da amica avrei dovuto starle solo vicina, senza pretendere che lei facesse quel che volevo io e senza immaginarmi superiore in alcun modo. E’ questa rabbia, unita al senso di impotenza, analizzata dopo anni, che mi ha dato comunque l’energia per rianalizzare le mie azioni e per capire che altre donne probabilmente, pensando di fare del bene, stavano assumendo lo stesso atteggiamento giudicante. Quell’atteggiamento tipico di chi pensa “perché non ti liberi? perché non vuoi essere salvata? perché fai tutto il contrario di quello che ti si dice?“. Donne narcisiste come lo ero stata io. Ed esistono donne del genere anche tra le femministe che poi presi a frequentare. Non si accorgono del fatto che una donna deve salvarsi da sola, con i propri metodi e le proprie scelte, perché é questo che le renderà più forti. Se davvero vogliamo aiutare le altre dobbiamo imparare a stare loro accanto senza prevaricarle, giudicarle e sostituirci ad esse nelle scelte.
Dobbiamo imparare a dividere quel che noi avremmo fatto nella stessa situazione da quel che fanno le altre. Dobbiamo anche tenere basso il nostro sentimento giustizialista. Il fatto che io pretendessi vendetta al posto suo non fa che dimostrare questa volontà di prevaricazione. Una violenza nella violenza. Lei era riuscita a salvarsi da lui ma non era riuscita a salvarsi da me. Contrariamente a quello che pensavo per lei era stato più grave quel che avevo fatto io e da me non era stata in grado di salvarsi. Così è stata mia responsabilità il fatto che lei poi pensò di non meritarsi nulla di buono. Fece la scelta più saggia, ovvero quella di allontanarsi da me. Ero io quella chiusa, non disponibile, incapace di provare vera empatia. Quella lezione io la imparai sulla sua pelle e per me resta un peso che oggi riesco a sopportare a malapena, ma mi ha insegnato cosa fare nella stessa situazione se mai dovesse accadere ancora ad una donna che mi è vicina.
La mia arroganza e presunzione sul fatto di conoscere le vie buone da percorrere per ogni donna alimentò in me altra presunzione e arroganza. Pensavo davvero di essere nel giusto e di farlo per lei. Ma era un mio disagio. Mio e solo mio. Perché pensare di essere così vicina alla perfezione mi ha infine reso vulnerabile e stanca. Tra la scelta di appoggiare le sue scelte, nel caso corrispondessero al mio volere, e quella di lasciarla sola io scelsi la seconda. Avrei dovuto coltivarne una terza. Avrei dovuto solo starle accanto senza sfogare su di lei il mio senso di impotenza e senza considerarla malamente perché non aveva fatto quel che volevo io. Quella per me è stata la lezione più dura. Mi chiedo se altre siano disposte a mettersi in discussione su questo punto. Se non si rendano conto di quello che ho capito io. Così vado a leggere i loro post e i loro scambi sui social e mi accorgo di quanto tendano a colpevolizzare le donne che non fanno quello che a loro viene imposto. C’è davvero una terza via e lo dico sinceramente, consapevole del fatto che le donne che oggi sbagliano lo fanno, spesso, non in malafede. La terza via è quella da percorrere perché di tutto le vittime di violenza hanno bisogno. Di tutto meno che di autoritarismi e colpevolizzazione.
Meno&Pausa – Avere la patata e non sentirla – racconta fatti reali di una donna che usa questo pseudonimo per raccontarsi.
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Il sostegno e’ l’ unica via. Sostenere e accompagnare e non giudicare. Se giudichi sei peggio di chi fa violenza. Sei come lui. Invece dovremmo essere tante lei pronte a camminato al fianco rispettando i tempi delle altre. Che non sonj noi e non faranno scelte uguali alle nostre