Conducendo, per motivi di studio su un personaggio, ricerche su alcuni attentatori, per lo più mass murderer, mi sono imbattuta ultimamente in personaggi molti diversi fra loro. Fra questi, svariati vengono descritti come di livello culturale medio-basso, scarsa intelligenza e originalità nulla.
Fra quelli dal profilo che mi è parso più interessante sono invece Theodore John Kaczynski, noto come Unabomber – terrorista ma non mass murderer, dato che i suoi attacchi avevano degli obiettivi ben precisi in persone ben precise che rappresentavano per lui qualcosa di ben preciso –, e Timothy McVeigh, l’attentatore di Oklahoma City.

Su Unabomber, matematico dal quoziente intellettivo superiore alla media, che contestava i fondamenti della società industriale e la sempre maggiore intrusività della tecnologia nella vita quotidiana dei cittadini, e soprattutto sulla sua cattura, Discovery ha prodotto una serie Tv nel 2017.
Di McVeigh ricordavo che aveva colpito l’America al cuore perpetrando sul suo territorio l’attacco con più vittime fino all’11 settembre, se non si considerano i massacri di Sioux e di altre popolazioni indigene americane. Ricordavo che, veterano della guerra del Golfo (la prima), rimproverava al suo paese le bugie sull’Iraq e la doppia morale, ad esempio sulla questione della detenzione di armi di distruzione di massa.

Tornando a leggerne, ho trovato gli esempi da lui citati sull’uso scriteriato e criminale che gli Usa hanno fatto delle loro armi, col pretesto di atti di guerra, su popolazioni inermi: Hiroshima, Nagasaki, Hanoi. Nel 1995, a due anni dai fatti di Waco, McVeigh piazzò una bomba presso un ufficio federale a Oklahoma City, ammazzando 168 persone. Fra questi, una ventina di bambini. E questo lo ricordavo, perché è un fatto cui comprensibilmente venne dato grande rilievo a suo tempo. Quello che non ricordavo, anzi, che proprio ignoravo, era la sua corrispondenza con Gore Vidal, che ne scrisse nel suo saggio La fine della libertà, pubblicato in Italia da Fazi.
Un recente articolo del Il Tascabile sulla differenza fra spree killer e terroristi definisce McVeigh “suprematista bianco”. Mi sembra una buona occasione per ricordare le parole di Vidal che, pur non giustificando affatto l’assassinio di centinaia di persone (nell’era dei social è bene talvolta sottolineare l’ovvio), dice che McVeigh “soffriva di un esagerato senso di giustizia” che lo spinse a un atto di guerra solitario e lo portò ad ammazzare più gente di quanta non ne uccisero i Federali nell’assedio alla comunità davidiana di Waco con l’operazione Show Time (un’ottantina di persone fra cui oltre 20 bambini).
Mi pare che McVeigh non abbia mai chiarito se fosse consapevole della presenza di un asilo nell’edificio, tuttavia lui stesso rilevò che quando in un attacco militare a mano Usa muoiono dei bambini, si parla dell’uso di “scudi umani”.
I media costruirono il personaggio di un killer spietato e crudele che faceva il male per il gusto di farlo, e giocarono sull’equivoco del suprematista bianco, equivoco che faceva leva sulla sua fissazione anti “Feds” e la sua ossessione militare per le armi, condivisa dai suprematisti bianchi, appunto. Le sue motivazioni, come spiegò lui stesso, erano altre, accennate sopra e ampiamente affrontate nel breve saggio che Vidal pubblicò su Vanity Fair.