Lei scrive:
“Eretica adorata, sono in India e la mia azienda mi fa alloggiare in un hotel lussuoso. Sono al sesto piano e guardando in basso vedo un intrico di case e casupole, spesso i tetti sono in lamiera, le stradine polverosissime. Poco fa ho fatto una doccia: il getto è a cascata e viene giù da un quadrato di mezzo metro di lato direttamente dal soffitto. L’acqua piacevolmente calda, la temperatura della stanza regolata alla perfezione dall’aria condizionata. Una roba bella, no? Si.
Confesso di essermela goduta. Sono una dipendente, non una manager in viaggio d’affari. Questi agi mi sono possibili solo perché è la mia azienda che paga (un gruppo con sedi in Europa, Usa e appunto India). Ma in questo angolo qua di cervello non riesco a smettere di pensare a quei contenitori che vedo nei cortili, la in basso. Sono piccoli barili di plastica, di quelli che dalle mie parti si usano per mettere in salamoia le olive. È là che queste famiglie attingono l’acqua. Vedo i secchi posati lì accanto. Ripenso alla mia doccia.
Immagino queste donne spendere non so bene quante ore della propria vita a riempire e poi vuotare con criterio quei fusti, amministrare quel bene con esperienza e sapienza. Penso a quei corpi e alla fatica anche solo per una cosa “normale” come l’acqua corrente. E penso che io sono parte del sistema che le tiene là nei cortili roventi. E penso che non serve mica far ricorso alla gpa per sfruttare le donne indiane. Con amarezza chiedo: lo sanno questo le Bianche Dame della Carità Uterina? Si interrogano mai su quali delle loro quotidianità stiano sfruttando donne anche se non c’è di mezzo un parto? Perdona lo sfogo.”