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E vissero per sempre

di Maria Vittoria

Che cos’è per te, il lieto fine?
Te lo dico io: per te il lieto fine sono io che mi ravvedo, che torno sui miei passi, che mi sveglio dai cento anni di sonno e ancora cieca e intorpidita cerco la mano di mia figlia. Che la riconosca tra mille.
Tu che mi vuoi bene, tu che mi conosci da una vita, tu che mi cambiavi il pannolino, tu che sai cosa voglio fare da grande, tu che mi hai vista piangere in mezzo agli scatoloni del trasloco.
Tu, tu, tu, tu e tu.

Vi augurate che una mattina io mi svegli accusando un vuoto profondo e che lo riempia così.
Con mia figlia.
Come darvi torto, è così che generalmente le persone decidono di partorire: per negazione.
Non si chiedono: “Cosa voglio?”, si chiedono. “Cosa mi manca? Cosa c’è ancora da fare la domenica pomeriggio?”

Le persone si riempiono e si svuotano per essere attraversate da qualcosa. Che sperano gli produca lo yang di cui vanno in cerca.
All’improvviso smettono di fare sesso, di fare l’amore, di accontentarsi del primo piano orizzontale e si ritrovano sdraiate su un materasso in memory a gambe larghe all’insù per far attecchire il seme.
Ma anche qui, come dare torto.

La linea sottile tra le cose che si desiderano e le cose che si vogliono sta nella poesia. Nel cassetto. I sogni e la realtà. I sogni e la realtà. I sogni e la realtà. Prima o poi devi guardarla in faccia.
Ma che faccia ha la realtà?
La Realtà è come non ti immaginavi da piccolo. Ha le rughe tutt’intorno alla bocca e agli zigomi.
Si alza già stanca e vuole arrivare a sera. Per allargare le gambe e poi stringerle ancora intorno a un collo che sa di nuovo. Che puoi amare all’infinito perché ancora non esiste.
Ma le aspettative nascono per essere tradite.

E anche tu, sei nata già cresciuta, già sposata, con già i capelli del colore del miele e gli occhi grandi, prima ballerina, le mani da pianista, le labbra rosse come una rosa, prima della classe. Chissà a quanti ragazzi farai girare la testa.
Già tradita.
Figlia, figlia, figlia. Figlia amorosa.
Mettiamo che ti abbia allattata e poi, stanca, me ne sia andata perché di dormire cento anni proprio non avevo il tempo.
E che nel tragitto sia diventata lo yang di me stessa.

Mettiamo che,in tua assenza, io abbia lavorato e studiato e traslocato e gioito e sofferto.
E che un mattino mi svegli dopo aver dormito cento minuti perché avevo da fare, avevo da vivere.
Che ancora cieca e intorpidita allunghi la mano per cercare il cellulare.
Le nove, sempre tardi.
Stasera andiamo al concerto.
Grazie per ieri.
Ti devo dare i soldi per il regalo.
Quanto vino prendo?
Ti ho lasciato la pasta in frigo, mi raccomando non farla irrancidire.
Arrivo alle diciotto.
Ti amo anch’io.

Metti che sia felice.
Inspiegabilmente, in MIA assenza.
Che mi abbiano invitata a Berlino per il weekend e che potendo scegliere io compri un biglietto last minute per venire da te. Figlia.
Oggi ti faccio una proposta indecente.
Che ne diresti di chiamarmi col mio nome proprio, di prendermi per mano e fuggire insieme sui colli?
Che ne diresti di avere una madre. Felice e contenta.

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