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Sense8: Vanity Fair censura le sorelle Wachowski

Articolo di Ethan Bonali e Porella Cuccarini

Venerdì scorso la piattaforma Netflix ha finalmente rilasciato la seconda

stagione di una delle serie più attese del 2017: Sense8, ideato e diretto dalle sorelle Wachowski.

Chi vi scrive si è lanciat* nel più classico dei bingewatching, divorando tutti gli episodi in una sola giornata. Al termine di questa maratona, qualsiasi articolo su questo gioiellino appariva quindi futile, soprattutto se accompagnato da uno spoiler alert.

Un post in timeline però non è passato inosservato: Vanity Fair Italy voleva dire la sua “sullo show dei FRATELLI Wachowski”. Incredul*, abbiamo aperto il link e “l’errore” si ripeteva anche in apertura.

Alcune lettrici hanno fatto prontamente notare l’errore: trattasi di sorelle Wachowsky e sì, sono due donne transessuali. Screenshot di rito in attesa della rettifica, che arriva il giorno dopo. Scomparso l’articolo precedente, ne compare uno nuovo e nel titolo effettivamente sono definite SORELLE!

Ma aprendo il link per verificare anche l’articolo abbiamo scoperto che la toppa è peggiore del buco…


Quando si credeva che, almeno su un giornale “sul pezzo” come Vanity Fair si potesse contare su un lessico rispettoso dell’identità di genere ci siamo accorti che anche la famosa rivista è ferma ad una definizione medicalizzata della transessualità. Le sorelle Wachowski non sono MAI state uomini, non sono delle operazioni a convalidare una identità. E perché quel “ora sorelle” tra parentesi?

I Tabù di Vanity Fair

“Sense8 ha una missione: abbattere i tabù. Sulla diversità di genere, razza e preferenze sessuali.” Ed è per tabù che la giornalista procede.

Anais Nin dice “Noi non vediamo il mondo com’è, noi vediamo il mondo come siamo noi.”

[SPOILER ALERT!!!!!!]

Abbiamo scoperto che Lito non subisce omofobia ma viene “attaccato” e ovviamente le virgolette sono di Vanity che le usa per banalizzare e ridimensionare la portata degli eventi che si succedono nella narrazione. Per l’autrice sembra non sia omofobo costringere una persona al coming out o essere vittima di outing. Come non vedere la drammaticità di una persona costretta a “nascondersi nell’armadio” per lavorare?

Come banalizzare la storia di Lito e Hernando in un Messico che discrimina strutturalmente e per legge l’omosessualità e le coppie gay?

Come non vedere la critica al machismo sudamericano, ed al machismo in genere, nella eccezionale duplicità di Lito che performa la mascolinità latina come attore ma che è terribilmente fragile nel privato?

Come non vedere la forza quieta, la mascolinità consapevole e dolce di Hernando?

Come ignorare il concetto di anarchia relazionale che sta dietro alla triade composta dalla coppia dei due uomini e Dani?

Vengono elencati i personaggi, nome – professione – città. Ci viene detto che alcuni di loro si incontrano e si innamorano (coppie eterosessuali, quindi possono comparire), che partono insieme per combattere il nemico ma che in fondo non si capisce cosa combattano. Si nominano di nuovo i personaggi e alcune loro vicende, ma qualcosa non torna ed è l’assenza di Nomi e Amanita.

Amanita, personaggio della serie – donna afroamericana lesbica – e un lavoro di Juliana Huxtable, artista e donna intersex e transgender di colore.

 

Come non capire la complessità della coppia Nomi – donna transessuale – e Amanita – afroamericana e lesbica – dove si intersecano e risolvono le realtà dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale, della razza (non usiamo etnia proprio perché è il concetto di razza che crea discriminazione ndr)? Una coppia lesbica-interrazziale, “l’indovina chi viene a cena” del 2017.

Come ignorare che Nomi incarni lo spirito queer della serie? Abbiamo rimosso dalla memoria il suo splendido monologo per il Pride nella prima stagione?

Come non capire la presentazione della condizione femminile nei diversi contesti?

La storia di Kala, in un’India religiosa, divisa tra il suo “dovere di donna” e i suoi desideri? Come non vedere la questione del sesso e della sessualità?

Come ignorare la storia di Sun, che finisce in carcere al posto del fratello e per la famiglia perché, in Corea, la donna è sacrificabile e l’onore della famiglia è tutto? Come non vedere che il personaggio di Sun scardina la costruzione dei ruoli di genere e mette in luce le qualità di coraggio, nobiltà d’animo e padronanza di sé, che sono sempre stati attribuite agli uomini?

E come non vedere che il genere maschile coreano viene presentato come fragile?

Come banalizzare, ancora, la storia di Capheus, che mescola fattori come lo scontro/incontro tra culture, colonizzazione culturale, le disparità di censo, in un Kenya pieno di contraddizioni. Come non vedere la questione della razza quando il personaggio viene messo spalle al muro per il fatto di ammirare un attore bianco?

Sense8 celebra l’intersezionalità che non è una banale uguaglianza.

Ma tant’è, sempre più sconcertat* andiamo avanti con la lettura.

C’è una sola motivazione visto il tono di tutto l’articolo: stroncare Sense8 perchè è una serie che va contro l’ordine costituito. Perchè va contro quelli che sono considerati tabù e che tali devono rimanere: non si dice e non si fa.

E l’omotransfobia è fatta di tabù.

Una serie tv politica

Sense8 è una serie politica. E per far arrivare il messaggio queer, di analisi e critica delle società, le sorelle Wachowski utilizzano un pastiche di immagini e monologhi. La trama – che secondo la giornalista di Vanity Fair ha una struttura debole ma è una festa per gli occhi – è volutamente “debole” perché la struttura dei fatti è secondaria alla realtà che si vuole presentare. Le immagini sono opere d’arte perché l’arte è politica e sintetizza e completa quello che a parole, non solo appesantirebbe la visione, ma la renderebbe meno efficace, meno rivoluzionaria.

Wolfgang, sensate berlinese, e il Cristo Morto del Mantegna.

 

Le sorelle Wachowski sono consapevoli delle loro scelte artistiche e, attraverso la scena che si svolge alla presenza del celebre quadro di Rembrandt, paragonano il loro lavoro al quadro che, ai tempi, fu giudicato un pasticcio e che oggi è giudicato un capolavoro. Il loro motto è “lungimiranza”. Nel monologo sul quadro viene spiegato che solo due dei protagonisti guardano la bandiera – l’ideale per il quale i personaggi ritratti hanno messo da parte le loro differenze – solo due guardano la realtà per realizzare il futuro. Questa è una dichiarazione politica.

Come lo è, forse, il tabù di Vanity Fair.

Globalizzazione e struttura dell’azione

La struttura dell’azione rispecchia quello che oggi è la globalizzazione: connessione.

Nei processi di globalizzazione sono venute in contatto culture, strutture sociali ed economiche, sessualità, orientamenti sessuali e generi diversi.

La connessione – i personaggi sono psichicamente collegati, provano le stesse emozioni, le stesse sensazioni fisiche, sono nati nello stesso giorno – permette di elaborare gli stessi aspetti da otto punti di vista differenti.

Questa è la realtà. Nessuno di noi, da solo, ha la capacità di vederla o comprenderla.

E la connessione, in una trama in cui l’azione e il tempo dell’azione sono pressochè lineari, a collegare le vicende dei personaggi.

Una recensione omotransfobica?

Davvero ci rimane poco comprensibile il fatto che , per la giornalista di Vanity, la serie sia “lenta, talvolta dispersiva” e con “una struttura narrativa debole”. Se questa critica non fosse appannata da quanto letto prima, potremmo ritenerla opinabile ma legittima perchè i gusti personali non si discutono.

Ma quello che abbiamo letto potrebbe essere un concentrato di omotransfobia che non ci ha lasciat* indifferenti.

Una serie tv bisogna saperla capire prima di fare una recensione senza senso.

Il pubblico non è cretino.

 

 

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