Quando eccessiva è l’emozione, non controllo la tecnica. La mia narrazione si frammenta, come forse il suo stesso oggetto richiede, non essendo alcune questioni meritevoli di essere trattate come monoliti, ma come mosaici in cui ogni tassello racconta la propria storia, e la storia dei propri incastri.
Ma se è vero che le migliori lettere d’amore o di odio sono quelle fredde, in cui il fuoco non divampa e lo scrittore muove i fili delle proprie storie con la fredda precisione chirurgica con cui il macellaio abbatte il capo di bestiame, sono così fiera di non saper scrivere, oggi.
Del resto, il segreto risiede nell’etimologia stessa della parola “e-mozione”, qualcosa che muove, dall’interno verso l’esterno, per cui la mia non sarà una disamina lucida, ma l’immagine scattata dal fotografo a cui trema la mano mentre cerca di catturare uno scenario che lo sovrasta.
Scrivo per il ragazzino di 16 anni che a Lavagna si è tolto la vita dopo che la Guardia di Finanza ha trovato una quantità irrisoria di erba nella sua cameretta (e introduco consapevolmente la subordinata con una particella temporale, e non causale), scrivo per la sua famiglia, per i miei amici, per mia figlia – soprattutto per lei –, scrivo per i mostri che il sonno della ragione genera, quando scambiamo la libertà di opinione con il massacro, la presa di posizione con l’espressione di un parere ad ogni costo.
Partendo dal presupposto che probabilmente riesco a empatizzare più con un ragazzino disagiato che con la Guardia di Finanza, resto comunque basita dalla facilità con cui fioccano ogni dove commenti che cercano di additare un colpevole ad ogni costo. Lontana dalla retorica moralista che invade i nostri quotidiani, che equipara una canna all’eroina, provo disgusto anche rispetto all’esatto opposto, perché gli estremi si assomigliano necessariamente, arrivando a sfiorarsi, in certi casi persino a coincidere.
Mi riferisco nello specifico ad un articolo firmato da Diego Cerreti sul blog Non si sevizia un paperino, in cui si smembra letteralmente il discorso pronunciato dalla madre, colpevole di aver chiamato la Finanza non sapendo più con che armi combattere il disagio di suo figlio, sull’altare durante i funerali. E, a mio avviso, questo sfoggio di surrealismo basterebbe per commentare la faccenda: davvero si può mettere alla gogna un discorso, più o meno condivisibile in base alla sensibilità di ognuno – di un essere umano che ha visto il proprio figlio morire suicida, e che oltre al dolore sta probabilmente sperimentando un senso di colpa fuori da ogni ragione? La cruda analisi di Cerreti è anticipata da un tentativo di mettere le mani avanti, si preannuncia cattivo e di cattivo gusto, eppure non si trattiene, riversa la propria critica su ogni sillaba pronunciata, sperticandosi in esercizi di (anti)-retorica e sottolinenando come alcune frasi “non vogliano dire un cazzo” (incredibile che questo accada davanti alla tomba della propria prole, no?).
I temi toccati sono tanti, sono vividi e caldi, per cui cercherò di scomporli.
L’abominevole sciacallaggio dei media
“Giuro che se avessero lasciato il cadavere dov’era non avrei avuto nulla da dire, ma quando ho visto che qualcuno ha iniziato a ballarci sopra, mi sono sentito in diritto di offenderlo.” Se questa frase, come credo e spero, si riferisce all’orrenda attitudine di giornalisti da quattro soldi che, alla mercè di un pubblico benpensante, non hanno perso l’occasione per trasformare la morte di un ragazzino nell’ennesima epifania dell’assurdo, gridando ai quattro venti che fumare equivale a bucarsi, non posso fare altro che dirmi d’accordo con Cerreti. Ma non posso fare altro che domandarmi cosa ci sia di diverso tra l’additare un solo colpevole (la droga) e additare un solo colpevole (la famiglia, in particolare nelle vesti della madre). Questa ricerca di un unico mostro da additare, di un capro espiatorio a tutti i costi quando – è bene ricordarlo – si sta parlando di un ragazzino morto suicida, è un atteggiamento identico a quello di una qualsiasi Barbara D’Urso avvolta in una bambagia di luce nello studio di Pomeriggio 5. Perché non basta esprimere un’opinione diametralmente opposta a quella dei media per definirsi alternativi, e se questi sono gli alternativi, io preferisco la massa che ha quantomeno la giustificazione di una fervida ignoranza.
Una volta un’amica mi raccontò di una tribù africana che, una volta liberata dopo anni di schiavitù, rimandata nella propria terra natia ripropose con la popolazione autoctona il medesimo schema dominante che aveva appreso. Uno dei numerosi esempi, nel corso della storia, delle vittime che diventano carnefici. È esattamente ciò che sta accadendo qui. Per considerarsi liberi pensatori, non basta cambiare il nome del nemico se si utilizzano gli stessi schemi che vengono criticati. Per essere divergenti è necessario compiere un atto di forza, non aderire belando al coro di chi demonizza le droghe, ma nemmeno a quello di chi colpevolizza unicamente la famiglia senza farsi altre domande. Perché la verità, in una situazione così complessa da avere come conseguenza – non mi stancherò mai di scriverlo – un ragazzino morto suicida, non può essere bianca o nera, ma richiede una ricerca più complessa, che ci porti a mettere in dubbio le nostre convinzioni, per non cadere né da un lato né dall’altro della retorica. Abbracciare la possibilità che questa orribile circostanza ci offre per poter riflettere senza ergerci a giudici, come facciamo dai nostri blog, dalle nostre pagine Facebook, non differenziandoci in nulla dal pressappochismo dai media che sentenziano imperiosi. Ci offre l’opportunità di contrapporre un pensiero divergente, multisfaccettato, a tutti gli -ismi in cui è spaccato il mondo.
Fatto-causa-conseguenza, oppure: della genitorialità e della solitudine. Siamo tutti pedagogisti col culo degli altri
Quando leggo che la madre ha contribuito a uccidere il figlio, o che l’ha ammazzato due volte, il mio corpo è percorso dagli stessi brividi che sento quando ascolto fesserie sull’uso di droghe leggere. Una frase del genere appare ai miei occhi come l’equivalente emotivo del compitino che le maestre di chiedevano di svolgere alle elementari, quando presentandoci un testo, ci chiedevano di scomporne le parti inserendole nelle caselle “fatto”, “causa” e “conseguenza”. Nulla di più riduttivo, nulla di più semplicistico.
Davvero possiamo dire che un ragazzo si è buttato dalla finestra perché la madre ha chiamato la Guardia di Finanza? Siamo così spaventati da aver necessità di una spiegazione granitica quando le cause di un atto tanto forte possono essere mille, e tutte totalmente sconosciute, dal momento in cui non sappiamo niente della persona di cui stiamo tanto amabilmente discutendo, comodamente seduti dietro lo schermo dei nostri computer manco fossimo a L’Arena di Giletti. Sappiamo qualcosa delle misure prese dalla famiglia prima di arrivare a un gesto di certo insolito, come quello di richiedere l’intervento delle forze dell’ordine? La risposta è no. Non le conosco io, non le conosce Cerreti. Possiamo solo supporre. E, supponendo, non possiamo esprimere giudizi. È come condannare all’ergastolo un uomo perché crediamo abbia ucciso. Allo stesso modo, non desidero difendere a spada tratta una madre che non conosco, e che forse è davvero una madre orribile, come scrivono in molti. L’unica forma di ribellione che mi resta è la sospensione del giudizio, è imparare a dire “non so”, “non capisco”, “questa questione è troppo grande perché io possa davvero esprimere un parere”, è fare un passo indietro e, infine, cercare per quanto possibile di imparare qualcosa da quella che è a tutti gli effetti una tragedia che ci riguarda, assumendoci le nostre responsabilità rispondendo alla domanda: “Cosa posso fare io affinché il prossimo sedicenne che si troverà in una situazione di difficoltà non si uccida?”
Condividere indignati il vostro parere tra una gif animata e un’immagine di copertina? Può darsi che lo riteniate utile, e del resto io stessa, che mi ero ripromessa il silenzio su questa orribile faccenda, non posso fare a meno di urlare di stare in silenzio, di tacere di fronte alla morte di un ragazzino e al lutto di una famiglia, se deve diventare per voi l’ennesima occasione per vomitare rancore casuale. Perché è vero che se c’è un’occasione che invece può nascere da questo orribile fatto di cronaca che coinvolge tutti – famiglia, scuola, amici, parenti, conoscenti, noi sconosciuti popolo di opinionisti – è proprio questa. Qual è la nostra parte di responsabilità che ha portato un ragazzo a pensare che buttarsi da un balcone fosse meno doloroso che fronteggiare la vergogna?
Forse questa madre e questo figlio soffrivano lo stesso dolore. E – ribadisco – dico forse, perché, esattamente come voi, io non conosco a fondo questa storia. Per cui cercherò di fare quello che può essere considerato un esercizio di astrazione e di empatia, immaginando qualcosa che non pretendo essere l’unica verità possibile. Forse questo ragazzo aveva ereditato dalla madre il cieco terrore del giudizio altrui, e per questo ha deciso di farla finita. Il giudizio altrui, che oggi voi sciorinate al bar o sulle vostre pagine virtuali. Forse questa donna ha trascorso una vita intera a sentirsi ripetere che non era una madre sufficientemente buona e ha sofferto per questo, preda della convinzione ignorante e provinciale che una donna, una volta divenuta madre, debba presiedere alla scienza infusa che dona ogni risposta, forse ha semplicemente agito con i mezzi che conosceva, forse le ha davvero provate tutte, forse no. Non so esattamente perché, ma mi viene in mente, pur essendo labili le corrispondenze, Annamaria Franzoni, non a caso scelta da Cerreti come immagine di copertina del suo scritto. La Franzoni rappresenta ogni mia singola paura. Il terrore cieco della perdita di ogni contatto con la propria umanità. Provo disgusto per lei, ma non posso fare a meno di chiedermi: quante persone si saranno rese conto del profondo disordine mentale di questa donna, prima che a pagarne le conseguenze fosse il piccolo e innocente Lorenzo? E se è vero che la follia ha anche cause endogene, in questo caso innegabili, non posso fare a meno di pensare che siamo tutti carnefici quando giudichiamo un genitore (mi verrebbe da dire “una madre”, ma non voglio cadere in questo seppur veritiero cliché) di non essere adatto al suo ruolo, anziché cercare un modo per sostenere il suo compito delicatissimo, che è un compito sociale, di cui un’intera comunità dovrebbe farsi carico. La Franzoni è un mostro, e ci costringe a fronteggiare l’amara verità di una sfavillante indifferenza.
Il sottotitolo dello scritto di Cerreti è: “le madri stronze esistono”. Un passaggio, più avanti, rivelerà una sconvolgente verità rispetto alle donne che non salveranno il mondo. Su questo, almeno, siamo d’accordo. Il problema alla radice è che un qualche tarlo secolare intrinseco nella nostra società desidera attribuirci questa immagine. La Donna Angelo, la Donna Risolutrice. Posso dire, dal basso della mia esperienza, che sono stata chiamata mamma stronza per molto meno, semplicemente per aver cercato il mio posto nel mondo e per insegnare a mia figlia, che amo sopra ogni cosa, che è questo il privilegio a cui deve ambire. E mentre decostruivo un cliché per seguire la mia natura, sono stata additata dalla comunità intera a cui appartenevo. Parole durissime fioccavano su di me come fossero una pioggia di proiettili che dalle alte vette della conoscenza altrui piombavano sulla mia vita tutta. Le conseguenze che può avere sulla vita di un genitore tutto questo? Disturbo d’ansia generalizzato, depressione. Nella migliore delle ipotesi. Non siamo eroi. Siamo solo esseri umani. Compiamo sbagli. A volte irrimediabili, altre volte per fortuna no. Nel primo caso, li paghiamo per tutta la vita anche senza la necessità di questo amplificatore costituito indifferentemente dai media o dal chiacchiericcio su Facebook, che spartiscono a mio avviso la stessa percentuale di colpa. Perché questo accade ai genitori quando agiscono in una maniera non immediatamente condivisibile, quando compiono una qualche azione che richiede un tempo di comprensione maggiore rispetto a quello che impieghiamo per apporre un like su una rete sociale, e che forse anche tutti i nostri sforzi non ci aiuteranno mai a capire a pieno, perché ognuno ha la propria storia, le proprie convinzioni, la propria sensibilità.
Io non lo so perché la mamma di quel ragazzino ha chiamato la Guardia di Finanza. Non lo capisco, non lo capirò mai. Ma è davvero questo il punto? È questo l’aspetto importante? Che io comprenda una storia non mia, che io offra la mia opinione su questo, che io la condivida? Posso dire, seduta al mio pc, che io non avrei fatto questa telefonata. Ma ho la fortuna di vivere, attualmente, una vita che mi rende felice, di aver sentito mia figlia poco fa, che sta altrettanto bene, e che mi ha cantato una canzone bellissima.
Non so niente di questa madre, ma posso dire che, nonostante io trovi alcuni passi non condivisibili, nonostante io creda che abbia la sua percentuale di colpa nell’accaduto per sue stessa ammissione, quello che ha compiuto sull’altare di suo figlio appena morto è un gesto eroico. Chiedere scusa, cercare di lanciare un messaggio positivo sulla comunicazione, sulle richieste di aiuto, sulle dipendenze. Perché è quello che ha fatto, a prescindere all’uso orribile che poi i media hanno fatto del suo messaggio, ma l’intelligenza sta nel cercare di scindere, per quanto complesso e doloroso, la vicenda dalla sua strumentalizzazione.
E allora mi domando se le persone che si sentono pronte a esprimere un parere sappiano cosa vuol dire avere un figlio. Voi, che non riuscite a sopportare che qualcuno vi dica su Facebook che la vostra serie tv preferita fa schifo, e che non avete mai cambiato un pannolino ma siete agilissimi nel cambiare l’immagine di copertina, non avete idea di quanto sia complesso il compito, e di quanto le strutture che dovrebbero sostenere la genitorialità siano impreparate per una serie di inossidabili tabù. Quante famiglie soffrono sentendosi inadatte, quante donne si convincono di essere mostruose non avendo la bacchetta magica che risolve i drammi del mondo, quante parole non si dicono per timore. Perché un figlio è, spesso, la persona che ami e che ti ama di più al mondo, e che mette in discussione ogni tua singola certezza, che ti dice che fai schifo e che vorrebbe essere chiunque, ma non te. E questo fa soffrire, e in questa sofferenza nasce l’opportunità di crescere, la stessa per cui ringrazio mia figlia ogni giorno, ma c’è anche il disperato bisogno di umana comprensione, affinché nessuna madre e nessun padre si debba mai sentire in una condizione di difficoltà gravissima, e nessun figlio debba mai morire per questo.
A uccidere quel ragazzo non è stata la droga, non è stata la madre, non è stata la Guardia di Finanza. É stata la totale mancanza di empatia del mondo in cui viviamo, l’idea che esista una sola visione del mondo e non tante, da tutti noi perpetuata mentre difendiamo il nostro punto di vista come se fosse l’unica verità possibile, con un atto di violenza inaudita con cui costringiamo le nuove generazioni ad un pensiero non flessibile. Sua madre soffriva, probabilmente, di questo e per questo, e lui lo ha appreso, come conseguenza. Ad uccidere quel ragazzo due volte siamo stati tutti noi, quando della solitudine genitoriale ci facciamo beffe, noncuranti di ciò che accade non a Lavagna, ma entro i confini del nostro piccolo e antico mondo.
Le droghe leggere
La parola ipocrisia è la più ricorrente. Smettiamola di essere ipocriti, perché tanto una canna ce la siamo fatti tutti nella vita, soprattutto a 16 anni. È vero. Ma un genitore ha il dovere di insegnare a un figlio a essere libero. Libero da cosa? Libero da ogni forma di dipendenza. Perché se mia figlia un giorno si farà le canne, voglio che lo decida consapevolmente, e che mi urli in faccia i motivi per cui sta decidendo, mettendo in dubbio qualsiasi forma di autorità, a partire dalla mia. Ma io non voglio insegnarle a essere dipendente da qualcosa. Da qualsiasi cosa. Da un uomo. Dal giudizio di un’amica. Dai dettami sociali che la vogliono schiava dell’immagine. Da una canna. Dal divertimento a ogni costo. Dai social network. Per me e per lei cercherò di vincere le tante dipendenze emotive e sociali da cui io stessa sono affetta, perché non sono senza peccato, e non posso scagliare la prima pietra. Ma non posso nemmeno dirle che tanto una droga leggera non le farà del male. Non posso, perché stiamo parlando di ragazzini, e i ragazzini hanno bisogno di essere guidati, e anche ammoniti, proprio affinché arrivino pronti alla libertà di cui, tronfi e barocchi, i signorotti dal giudizio facile si riempiono la bocca adesso. E, se le mie convinzioni di adulta mi portano in un’altra direzione, non posso e non devo dimenticare, se sono genitore, che è a un ragazzino che sto parlando, che un eccesso di libertà confina nelle giovani menti con il disinteresse, e che l’amore ha altre forme rispetto alla perpetua accondiscendenza. Perché a 30 anni ragiono in un modo, ma a 16 avevo disperatamente bisogno che qualcuno mi indicasse una qualche direzione, per poi scegliere se seguirla o no, a un certo punto della mia vita. E quella mamma aveva tutte le ragioni di preoccuparsi, perché forse quel ragazzino non fumava per divertirsi – attività lecita e condivisibile – ma lo faceva per manifestare un disagio, al punto tale che poi si è ucciso. Non per la droga, non per sua madre, non per i suoi amici, non per noi stronzi, ma probabilmente per una somma di tutti questi fattori o forse per sue inquietudini che noi superficiali non potremo mai nemmeno immaginare.
Ipocrisia – una parola che mi fa sorridere se penso al fatto che, a parte nei casi di coltivazione diretta e di alcuni illuminanti esempi associativi rispetto ai quali l’Italia si dimostra come sempre retrograda, il consumo di cannabis va a fomentare la mafia, spesso di Stato, contro la quale ci schieriamo con tanto fervore. È questa la libertà che vogliamo con tanta forza?
La retorica e il suo contrario, che sempre retorica è
Considero che lo sfogo di Cerreti sia stato scritto a caldo, in un momento di comprensibile rabbia. Condivido il sentimento e, nonostante le nostre conclusioni siano opposte, non posso non considerare il fatto che le e-mozioni portino a questo, a una lucidità solo apparente – la mia, la sua. Sorrido tristemente quando sottolinea la retorica del discorso della madre – mi auguro che a breve ci illumini con un “Manuale per scrivere il discorso adeguato alla morte suicida del proprio figlio sedicenne”. Secondo lui la madre avrebbe dovuto tacere, perché è così che si fa, è così che si soffre, così vogliono le convenzioni sociali. Secondo me questa donna dovrebbe gridare fino a perdere il fiato, fino a non reggersi più in piedi. Perché non è vero che la morte di questo ragazzino non è un fatto pubblico, come il Cerretti suggerisce. La morte di questo ragazzino, che dovrebbe essere un fatto privato in un mondo giusto, ci riguarda direttamente, in questo pianeta schifoso in cui viviamo. E se i media trasformano l’ennesima tragedia in uno show con cui intrattenerci nei nostri salotti, esponendo quei genitori ai nostri facili giudizi e quel povero ragazzino a una rinnovata carneficina, possiamo fare noi la differenza. Possiamo sospendere il nostro desiderio smodato di dire la nostra a tutti i costi, proposito che io per prima tradisco, non essendo riuscita a tacere davanti allo scempio. Possiamo domandarci come fare a empatizzare per prevenire, e non piangere, l’ennesima morte di un bambino o di una madre. E qui mi fermo, per non opporre la mia retorica alla retorica delle cattive famiglie colpevoli che Cerreti propone, e per non coltivare come fiori preziosi le orchidee dell’odio e della contraddizione a tutti i costi di cui ci siamo ammalati. E trascrivo il discorso della madre, senza fastidiose interruzioni, affinché ognuno possa trarne le sue riflessioni. Come madre, nemmeno so immaginare quanto pesante sia stato pronunciare ognuno di quei macigni, e sapere di doverlo fare davanti alla rinnovata santa inquisizione mediatica, come se il dolore non fosse già abbastanza schiacciante.
All’imposizione del bianco e del nero, della dinamica del buono contro il cattivo che ereditamo dai telegiornali, oppongo, fiera le mille sfumature dell’umanità claudicante e viva, il ritorno a ciò che dovrebbe distinguerci dagli altri animali: la contraddittoria empatia verso tutto ciò che non ci è dato comprendere.
Roberta D’Orazio, una mamma stronza.
“Le ultime parole sono per te, figlio mio. Perdonami per non essere stata capace di colmare quel vuoto che ti portavi dentro da lontano. Voglio immaginare che lassù ad accoglierti ci sia la tua prima mamma e come in una staffetta vi passiate il testimone affinché il tuo cuore possa essere colmato in un abbraccio che ti riempia per sempre il cuore. Fai buon viaggio piccolo mio. La domanda che risuona dentro di noi e immagino dentro molti di voi è: perché è successo, perché a lui, perché adesso, perché in questo modo? Arrovellandoci sul perché, ci siamo resi conto che non facevamo altro che alimentare uno stato d’animo legato alla sua morte senza possibilità di una via d’uscita. Allora abbiamo capito che forse la domanda da porsi in questa situazione è piuttosto: come? Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale, che faticare a parlarsi è normale, che andare sempre oltre è normale. Qualcuno vuol soffocarvi. Diventate protagonisti della vostra vita e cercate lo straordinario. Straordinario è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi. Invece di mandarvi faccine su WhatsApp. Straordinario è avere il coraggio di dire alla ragazza ‘sei bella’ invece di nascondersi dietro a frasi preconfezionate. Straordinario è chiedersi aiuto proprio quando ci sembra che non ci sia via di uscita. Straordinario è avere il coraggio di dire ciò che sapete. Per mio figlio è troppo tardi ma potrebbe non esserlo per molti di voi, fatelo. Noi genitori invece di capire che la sfida educativa non si vince da soli nell’intimità delle nostre famiglie, soprattutto quando questa diventa una confidenza per difendere una facciata, non c’è vergogna se non nel silenzio: uniamoci facciamo rete.” .
“A uccidere quel ragazzo non è stata la droga, non è stata la madre, non è stata la Guardia di Finanza. É stata la totale mancanza di empatia del mondo in cui viviamo, l’idea che esista una sola visione del mondo e non tante, da tutti noi perpetuata mentre difendiamo il nostro punto di vista come se fosse l’unica verità possibile, con un atto di violenza inaudita con cui costringiamo le nuove generazioni ad un pensiero non flessibile”.
Sono completamente d’accordo; e anche – aggiungerei – di un sistema in cui un sedicenne con un po’ di “roba” tema di vedersi additato a vita come un criminale, mentre ogni giorno in TV vediamo indagati plurimi dirsi “sereni” anche se colti praticamente con le mani nel sacco…
Confermo ciò che penso da tempo: sei una delle poche teste pensanti del web. Apprezzo, più di qualsiasi altra cosa, l’intelligenza e la lucidità – e tu ne hai da vendere. Ringrazio il cielo per l’opportunità che ho avuto, anni fa, di scoprire il tuo blog: mi stai insegnando, con il tuo esempio, a stare al mondo. A fare un passo indietro rispetto alle emozioni che annebbiano la mente e a riflettere prima di parlare. A non giudicare. Nemmeno in questo caso. Grazie!
E per la madre di questo ragazzo, pietà e rispetto, niente altro.
Credo che ci siano due elementi da aggiungere a questa riflessione.
Il primo è la proporzione tra causa effetto.
Il secondo riguarda gli obbiettivi che si vogliono raggiungere “insegnando ad essere liberi”.
Sulla proporzione: immaginate una persona che il sabato sera si concede un cocktail. Lo considerereste un alcolizzato? Allo stesso -identico- modo, dieci grammi di fumo non fanno di un ragazzo un tossicodipendente. Dunque la madre ha commesso un errore che potremmo commettere tutti, quello di ingigantire un problema.
Sull’insegnare la libertà dalle dipendenze: immaginate una persona che non riesce a piegare un tovagliolo come vogliono in famiglia e per questo venga bastonato. Che lezione imparerà, a piegare il tovagliolo o che la famiglia può ferirlo e umiliarlo? Questa madre non voleva insegnare, voleva che il figlio fosse come lei riteneva fosse giusto essere. E siccome la vita non funziona così, ovviamente ha perso.
In ogni caso, attaccare questa donna è un esercizio da miserabili (sì, lo so, l’ho appena fatto anch’io).
In ogni caso, stiamo tutti affrontando il problema sbagliato.
Roberta D’Orazio scrive bene perchè pensa bene . Concordo praticamente su ogni suo concetto nutrendo amaramente gli stessi dubbi di genitore . Sono contento che sia possibile trovare sul web qualcosa da leggere che non faccia orrore .