Il primo episodio di cui ho memoria è questo: ho di certo meno di cinque anni. Lo so perché abitavamo ancora in quella casa in affitto al pian terreno. Anno forse 1970. Provincia. Centro Italia. Domenica mattina. Si va a messa tutti insieme (fatto inusuale, che fosse Pasqua?) e io voglio mettere i pantaloncini. Non posso. Perché? Perché le bambine mettono la gonna. Ma io non la voglio la gonna. Strepito strillo e divento verde (anche questo era piuttosto inusuale: ero una bambina generalmente quieta) ma non c’è verso. Quando insisto mi dicono che è una regola del prete, che in chiesa le bambine con altro che non sia una gonna non le fanno entrare. Cedo quando proprio sono esausta. Anche mia madre lo è. Mio padre minaccia punizioni e mia sorella più grande cerca di rabbonirmi. Continuerò a singhiozzare per un bel po’.
La foto di me qui accanto dice chiarissima una cosa: su tante cose avevano ceduto, in famiglia. È il 1976. Mio zio ci mette in posa, me, mia sorella e i miei cugini. Siamo sul lungomare e io sfoggio un completo verde ramarro ovviamente con dolcevita rosso mattone, occhiali a goccia con montatura dorata, posa da playboy decenne. Ero un maschio? No. Mi sentivo tale? Non lo so. So solo che ogni volta che mi si appellava come tale io non sapevo bene come reagire. Mi comportavo come se lo fossi. Questo è certo.
C’erano parenti che mi chiedevano ridendo “Ma tu sei un bambino o una bambina?” e quella volta che io risposi pronta (ci avevo pensato su, a quella risposta) che ero un incrocio (dissi proprio così, come fossi un cucciolo), un incrocio tra un maschio e una femmina, un mio zio disse con grande ironia a beneficio dei presenti “Su questo non ci possiamo sbagliare!” e tutti a ridere. Era una cena di famiglia e io divenni paonazza e come spesso accadeva mi rifugiai in bagno a piangere di rabbia (credevo di aver detto una cosa intelligente e invece no).
Al mare e in vacanza fino ai dodici anni avevo per costume solo lo slip. Nelle mie fantasie di avventura ero Tarzan, ero Tremal Naik e solo molti moltissimi anni dopo avrei capito che roba fosse quel turbamento che provavo a guardare Carol André alias Marianna, la Perla di Labuan. Mentre le mie amiche riempivano i diari con foto di Kabir Bedi, il Sandokan dello sceneggiato più seguito d’Italia, allora.
Lo sapevo. Sapevo di non essere una bambina come le altre. Mi muovevo, mi comportavo come un bambino. Ma non avevo un nome per tutto quello. Non c’erano nomi per dire chi fossi, non allora, a parte quel “maschio mancato” con cui in famiglia, seppur benevolmente, venivo definita.
I capelli corti erano solo un dettaglio. Anche mia sorella, due anni più grande di me, li portava spesso cortissimi. Ma non un centigrammo della sua femminilità risentiva della scelta. Prova ne furono i diversi corteggiatori che fin da ragazzina le giravano intorno. Io pensavo a lei come quella bella. Io no. Io ero di certo brutta. Ancora oggi non mi capacito di poter piacere. Lei era bella. Non io. Non aveva gli occhiali, poi. E di certo i complimenti che le zie le rivolgevano li sentivo tutti: era l’assenza di quelli che pesava. Il tacere verso me e verso il mio aspetto, più di qualunque altra espressa, esplicita riprovazione, a dirmi che non andavo bene.
Come si direbbe oggi: performavo un genere che non era il mio. Ma io non avevo parole per dire chi fossi.
Amavo il calcio. Le felpe larghe (specie quando mi serviranno a nascondere il seno abbondante che avrebbe abusivamente e rapidamente occupato il mio torace) e le scarpe da tennis.
L’adolescenza incombeva con tutto il carico di emozioni che ne consegue. Io avevo un disperato bisogno di essere amata. Ma nemmeno per un secondo avrei voluto appartenere alla cerchia di quelli “sbagliati”. Ed ero cresciuta in un tempo, in una cultura, in una realtà sociale decisamente omofobiche. Transfobia non pervenuta. Non era nemmeno pensabile. Non volevo essere sbagliata. Io volevo essere amata a tutti i costi.
Un altro episodio che vale la pena raccontare riguarda il secondo giorno di liceo. Avevo meno di quattordici anni. A me ed al mio amico d’infanzia Filippo (vero nome falso) cambiarono classe dopo la prima settimana di lezioni (la ragione non è rilevante) e i nostri nomi aggiunti a penna alla lista del registro di classe. L’insegnante della prima ora fa l’appello dando prima il benvenuto ai nuovi arrivati. Sono al primo banco. Un volto nuovo. Gli altri li conosce già da una settimana. Mi guarda sorridente e mi dice (scorrendo e leggendo il primo nome scritto a penna) “Tu devi essere Filippo, giusto?”. Sono timida e impacciata (lo sarò per molti anni ancora, insicura al limite del patologico) e le rispondo con un filo di voce “No veramente… io sono Valeria”(altro nome veramente falso). A questo punto le cose prendono una piega grottesca perché lei scorre ulteriormente la lista, controlla i soli due nomi nuovi e dice “Ma come… dunque. Filippo sei tu?” (il mio amico ha nel frattempo alzato la mano). “Si. Io mi chiamo Valeria”. Sgrana gli occhi, si sporge leggermente verso me, sulla cattedra e scandisce le parole mentre mi chiede impietosita “Come mai i tuoi genitori hanno fatto questa scelta? Di darti un nome da ragazza, intendo?”. La classe scoppia a ridere. Una nuova compagna di banco, una mezza bulla, sguaiatamente le fa “A professore’… è ‘na femminaaaa”.
Segue silenzio imbarazzato. Della cosa non si discuterà più. Il mio compagno preferito in classe diventerà presto il figlio di un magistrato (io proletaria in un liceo di figli di borghesotti locali), cui più o meno tutti danno del frocio, visti i suoi modi volutamente effeminati e provocatori. Gli piacciono le ragazze. Ma gli piace anche rompere gli schemi e ride di chi lo sfotte. L’amicizia con lui rafforza l’idea che io sia strana. Le mie amiche più strette, con cui spesso studiamo insieme a casa da me, un pomeriggio mi sottoporranno scherzosamente a una seduta di make up. Io mi guardo allo specchio e mi faccio orrore. Non riuscirò nemmeno ad accompagnarle alla vicina fermata del bus, conciata in quel modo.
(Foto: io a quindici anni circa. Praticamente un muratore in pausa pranzo)
Perché vi ho raccontato queste cose? Perché mai, nemmeno per un momento ho esultato all’idea che la mia famiglia (che amo e con cui ho superato un sacco di cose più brutte di quelle raccontate – so che diversi di loro leggeranno e che capiranno) fosse all’oscuro delle teorie moderne su genere e sessualità. Rimpiango moltissimo di essere nata in un’epoca che oscurava, invisibilizzava e rimuoveva qualunque espressione non-conforme. Non ne ho ancora mai parlato con loro, ma sono certa che avrebbero come me preferito supportare la mia diversità senza fare scemenze né mettere in atto strategie normative. Come invece è accaduto. Per ignoranza. Non per mancanza d’amore.
Io sono un’adulta credo abbastanza risolta. Sono una donna cis, prevalentemente lesbica. Sarei oggi un uomo transgender se fossi nata in altro periodo storico? Non lo so. Non mi interessano queste sliding doors. Preferisco la felicità e la gioia del qui-e-ora. E so che a moltissim* bambin* in ogni parte del mondo quella gioia viene negata. Qui-e-ora.
Voglio che que* bambin* siano felic*. E so che se non lo sono dobbiamo fare qualcosa: liberare energie, raccontare altre possibilità, smettere di spargere terrore. Rinunciare alle paure. Per loro. E anche per il bel bambino che sono stata e che oggi abbraccio forte forte come fosse un fratellino, a cui sussurrare “Andrà tutto bene. Non hai nulla che non va.”
Grazie per l’ascolto. Grazie a Eretica, sempre. E un grazie postumo alla mia famiglia. Oggi mi piace pensare agirebbero diversamente con quella bambina stramba che voleva possedere trattori invece che abiti eleganti (vero?).
Valeria
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forse sbaglio o forse faccio confusione….. ma ora bisogna pensare che tutti i gay e le lesbiche sarebbero transgender? vorrei che qualcuno mi facesse un pò di luce. Le mie figlie adolescenti hanno quasi tutti i giorni “avventure” di quel tipo, vengono scambiate per maschi, ne godono, giocano a calcio, una di loro è dichiaratamente lesbica. ma non ho mai pensato che desidererebbero cambiare “genere”…
No, non devi pensarlo 🙂 Orientamento e identità di genere sono due concetti separati che si combinano differentemente in persone diverse, e non si risale dall’orientamento (es: lesbica) all’identità (es: maschile). Secondo me la vera risposta alla tua domanda sta nel distruggere il dogma binario: l’identità di genere non è binaria (maschile vs femminile) come vorrebbero farci credere, ma è uno spettro fatto di sfumature. Quindi una persona può sentirsi donna ma riconoscere in sé lati maschili, per esempio. Attenzione poi a non confondere genere (che è una questione di identità) col sesso (che è una questione biologica). Si cambia sesso, mai genere, e anzi in genere il primo viene modificato, a livello di genitali e/o caratteri sessuali secondari, in funzione del secondo. Per sapere qualcosa in più sull’identità di genere delle tue figlie non ti rimane che chiedere a loro 🙂
Non sono genitore. Ma se lo fossi, l’unica cosa di cui mi preoccuperei nel tuo caso sarebbe di restare in ascolto. Mi pare tu lo faccia già, mi pare tu garantisca già alle tue figlie la libertà e l’apertura mentale necessaria a non ingenerare ansie o forzature. Restare in ascolto e supportare quando serve. Questo e’ amore. Poche cornici, tanti colori.
una donna a cui piace il calcio non ha lati maschili, è una donna tanto quanto una che ama la moda. Non ci sono lati maschili o femminili,un uomo è uomo anche se mette una gonna, una donna e donna coi capelli lunghi o rapata a zero, cambia il look non l’identità di genere