Articolo originale pubblicato su Medical Daily.
Traduzione e note di Manu.
“Sii uomo”, “non piangere”, “non fare la femminuccia” sono solo alcune frasi scelte dal vasto repertorio di concetti ego-distruttori insiti nella società odierna.
Rinforzare la retorica che femminilizza l’espressione dell’emotività e mascolinizza la violenza ha il potere di inibire l’empatia, esalta la cultura della dominazione, e mette in correlazione il rispetto con la paura. I ragazzi nascono come creature fatte per amare, ma fin da piccolissimi vengono loro insegnati quei tratti, quei linguaggi sminuenti, quella mentalità che li allinea al concetto socialmente accettabile di cosa sia un uomo.
Gli Stati Uniti hanno dato forma ad una definizione irrealistica di mascolinità. Ogni giorno, tutti i giorni, c’è un ragazzino che si sente inferiore perchè non riesce ad adattarsi agli standard. Chi invece riesce a rientrare negli standard, in realtà è solo in grado di costruire una facciata a tutto tondo che nasconda ciò che realmente gli piace o non gli piace, le sue emozioni, priorità e passioni – recita uno show ad uso e consumo della società che lo circonda.
Per i ragazzini questo accade a scuola, che è il microcosmo elementare del nostro paese. La scuola è quel momento della vita di un ragazzo in cui definisce sè stesso creando il suo gruppo di amici, scegliendo la sua materia preferita, il suo sport, i suoi passatempi e i suoi gusti musicali. In ultima analisi, è il momento in cui scopre il suo posto nel mondo.
Il femminismo [della differenza, N.d.T.] tratta soltanto una prospettiva parziale nella storia dell’ineguaglianza di genere. Secondo una concezione errata del maschile, gli uomini appartengono ad un genere libero dalle aspettative altrui, dagli stereotipi e da pressioni sociali. Un genere che non sperimenta ostacoli professionali e slut-shaming. Ma in realtà i ragazzi possono avere a che fare con pressioni sessiste peculiari, complicate e dolorose, quando viene loro detto di aderire agli standard di iper-mascolinità e misoginia. Devono mascherare le loro emozioni. Se un ragazzo ha una naturale inclinazione per le arti, il teatro o il canto, viene immediatamente etichettato, marchiato, additato come “gay” o “frocetto”.
“C’è una strana percezione dei maschi che si dedicano al teatro, fino alla terza media – io ero un bambino molto tranquillo” dice Thomas Policastro, 27 anni, di Long Island (NY), intervistato da Medical Daily. “Tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie, sono stato vittima di alcune prese in giro basate sul fatto che ‘i veri uomini non fanno teatro’”. Policastro ripensa alla sua attività teatrale durante le medie e le superiori, quando i ragazzi si portano dietro le battutine sessiste nello zainetto insieme ai libri di scuola. Ma la rete di supporto creata da famiglia e amici, fatta di accettazione e noncuranza del ridicolo, gli ha permesso di vivere un’infanzia serena. È difficile prendere in giro qualcuno a cui non importa nulla degli aspetti negativi, e si concentra su quelli positivi.
LOTTA PER L’APPARTENENZA
Non si può biasimare un bambino perché vive la scuola carico del naturale desiderio di piacere, di sentirsi accettato, di far parte del gruppo. Il bullismo, l’alto tasso di suicidi maschili, persino il sessismo, possono essere ricondotti al fallimento o al successo di questo tentativo di adattamento alla visione illusoria del maschile. Coltivare un senso d’appartenenza fra i ragazzi è il fertilizzante psicologico che fa nascere le comitive e i gruppetti di amici inseparabili, cementando amicizie che resistono fino all’età adulta.
È la ragione per cui la mensa scolastica è il centro nevralgico della socializzazione, dove la scelta dei compagni di tavolo riflette il gruppo in cui ti trovi meglio [può essere paragonato a ciò che accade in italia durante la ‘ricreazione’, N.d.T.].
Barbara Williams ha una laurea specialistica in psicologia ed è madre di tre figli di 18, 15 e 12 anni. Così ricorda un’esperienza indimenticabile avuta con Ethan, il più piccolo: “All’inizio dell’anno scolastico, Ethan è stato cacciato dal tavolo in cui pranzava con i suoi amici da uno dei ragazzi del suo team di basket. Gli disse che non era abbastanza figo per stare seduto con loro. Lui non mi disse nulla per un mese. Poi un giorno il ragazzo gli diede un forte spintone sul campo da basket. Ethan lo disse all’insegnante e a quel punto venne tutto fuori. Ciò che più l’aveva ferito era stata l’indifferenza dei suoi amici, il fatto che nessuno si fosse opposto al bullo”.
Ricerche condotte precedentemente sui pattern del bullismo sociale – chiamato anche aggressione relazionale – mostrano come sia i ragazzi che le ragazze ricorrano ad espressioni verbali caustiche atte ad escludere la vittima dal gruppo sociale. Le ricerche dimostrano anche che i ragazzi tendono ad essere fisicamente aggressivi in misura maggiore rispetto alle ragazze, il che non stupisce. Sabotare o manipolare i rapporti interpersonali (indipendentemente dal fatto che ciò avvenga a parole o con un’espulsione fisica dal gruppo) è spesso più deleterio per l’autostima di un ragazzo.
Si scoprì poi che il ragazzo che cacciò via Ethan è il più giovane di nove figli, e proviene da una lunga tradizione di bullismo. Dopo che i suoi divorziarono, crebbe con un padre che è stato ripetutamente buttato fuori da svariati eventi sportivi. Williams fa notare che “ansia e rabbia non saltano fuori dal nulla”: da qualche parte arrivano, “sia che il problema sia a casa o a scuola”.
Ad ogni modo, questa non è una storia di bullismo; il bullismo è solo una maschera che i ragazzi indossano. Secondo il popolare libro sulla genitorialità Raising Cain: Protecting the Emotional Life of Boys, esso è il prodotto dell’insegnamento che impartiamo da sempre, di modelli di aggressione e dominazione che nascono dal silenzio emotivo. La società deve cambiare e fornire modelli comportamentali positivi; modelli secondo i quali le emozioni dei ragazzi non sono una forma di debolezza; modelli secondo i quali essere dispotici causa paura e non rispetto.
UN GENERE DI SILENZIO
Loro sono gli aggressori, quelli che danno pugni agli armadietti e si azzuffano sui pulmini scolastici. Stiamo educando un’intera fetta della popolazione a rimanere intrappolata nella propria rabbia, e presto ne saranno prigionieri. Ma possiamo abbattere questi muri con facilità: un padre che piange guardando un film drammatico o riconosce la bellezza di un fiore insegna a suo figlio che va bene essere sensibili, dice Williams. Fa anche notare che ovviamente non tutti hanno un padre. In questo caso, gli zii, i nonni, gli allenatori e gli insegnanti devono assumersi la responsabilità di fornire un modello sano di mascolinità.
“Il problema che riscontriamo con i ragazzi è che mancano di educazione sentimentale”, dice Williams. “Loro dicono ‘sono arrabbiato’, e nient’altro. Non hanno gli strumenti per esprimere esattamente ciò che sentono, e siamo noi come società a creare questo problema. È necessario che la scuola e i genitori incoraggino l’espressione del sè”.
Questa espressione, ovviamente, deve cominciare in famiglia. Uno studio dimostra che le madri potrebbero essere coloro che iniziano i figli all’educazione sentimentale, dato che tendono maggiormente ad usare con loro un linguaggio emotivo rispetto ai padri. Tuttavia, le madri tendono ad usare questo linguaggio più con le figlie che con i figli. Se riusciamo a cambiare questa tendenza, possiamo insegnare ai ragazzi come esprimere le proprie emozioni senza paura.
Insegnare ai bambini l’empatia e la consapevolezza delle proprie emozioni li aiuterà ad affrontare i traumi sociali nell’infanzia e nell’adolescenza, e questo gli darà gli strumenti per affrontare le pressioni a cui saranno sottoposti nell’età adulta. Williams dice che nel suo distretto scolastico sono già stati fatti passi da gigante nell’incoraggiare i ragazzi e le ragazze a gestire positivamente le proprie emozioni, grazie alle lezioni contro il bullismo, l’alcolismo e l’abuso di droghe che cominciano già in quarta elementare.
Senza nessuna occasione di sfogo sano delle proprie emozioni, ogni bambino o bambina è lasciato senza via d’uscita, in una solitudine devastante. Secondo la American Foundation for Suicide Prevention, ogni giorno almeno tre ragazzi si suicidano negli Stati Uniti. Secondo le statistiche, a commettere suicidio sono in prevalenza i maschi. E non è un caso, essendo il genere che tende maggiormente a sopprimere le proprie emozioni.
I maschi ricorrono alla violenza o a comportamenti estremi, nel disperato tentativo di esprimere sé stessi, tentando invano di rientrare nello stereotipo di “vero uomo”. La frustrazione può crescere rapidamente, e in definitiva manifestarsi come vergogna e umiliazione.
D’altra parte, questo nuoce anche alle ragazze. I ragazzi hanno più possibilità di riuscire a suicidarsi, mentre per le ragazze questa problematica assume forme meno letali come l’abuso di pillole e l’auto-mutilazione. Cerchiamo continuamente nuovi modi di distruggere gli stereotipi di genere, ma il femminismo [della differenza, N.d.T.] ha monopolizzato il dibattito. Le donne riescono meglio a dare visibilità alle loro difficoltà di genere perché hanno maggiori strumenti comunicativi per spiegarle. Ma chi prenderà posizione e farà sentire la propria voce per i ragazzi? È tempo di fare qualcosa in proposito.
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N.d.T.: il femminismo moderno, intersezionale, si è in realtà occupato estensivamente delle problematiche di genere relative al maschile. C’è ancora molto, molto lavoro da fare, ma ecco intanto un elenco (non esaustivo) delle risorse femministe che trattano l’argomento:
- Exposing Men (2006), Cynthia Daniel;
- Beyond the Band of Brothers (2015), Megan MacKenzie;
- Gran parte del lavoro di Carol Cohn (http://genderandsecurity.org/who-we-are/staff/carol-cohn );
- Boys to Men: The Science of Masculinity and Manhood, Miles Groth;
- Understanding boys’: Thinking through boys, masculinity and suicide (2012), Mairtin Mac an Ghailla e Chris Haywood;
E ancora:
- Melissa Wright, 2011;
- Cockburn, 2007;
- Cowen, 2008;
- Daniels, 2006;
- Dowler, 2001, 2011 e 2012;
- Eisenstein, 2008;
- Enloe, 1983, 1989, 2010 e 2014;
- Fluri, 2008 e 2011;
- Goldstein, 2001;
- Jacobs e altri, 2000;
- Mohanty e altri, 2008;
- Moser and Clark, 2005;
- Puar, 2007;
- Sjoberg, 2013;
- Tickner, 2001;
- Yuval-Davis, 1997.
—>>>Questo è un contributo di Manu (traduzione e editing) per la campagna #mascolinitàfragile. Inviateci storie, immagini, quel che volete, su stereotipi che riguardano il maschile e oltre. Su abbattoimuri@grrlz.net
—>>>Guarda le immagini e i meme creati per la campagna.
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