
di Serena Natile
Qualche giorno fa mi è stato chiesto un intervento sulla nomina del personaggio dei fumetti Wonder Woman come ambasciatrice onoraria delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’autoaffermazione delle donne. La questione, per quanto possa sembrare irrilevante e in un certo senso ludica, ha in realtà delle implicazioni politiche importanti in termini di relazioni di potere e dinamiche di genere e sarebbe interessante sapere cosa ne pensano le compagne di Abbatto i Muri.
La decisione delle Nazioni Unite di utilizzare l’immagine di Wonder Woman come ambasciatrice dell’uguaglianza di genere risiede nella pratica di organizzazioni di rilievo globale di nominare un* ambasciatore/trice per promuovere particolari politiche e visioni del mondo. Questa pratica è parte della strategia di réclame dei Sustainable Development Goals (SDGs), una serie di obiettivi per lo sviluppo sostenibile che dal 2016 hanno sostituito i precedenti Millennium Development Goals. Questi obiettivi, che includono la lotta contro la povertà, l’accesso all’istruzione e l’uguaglianza di genere, sono il retaggio di un approccio imperialista alle relazioni internazionali che tende a riprodurre, invece che mettere in discussione, l’idea di sviluppo affermatasi nel periodo postcoloniale. Un’idea questa che cela svariati interessi politici ed economici e che ha legittimato un processo di depoliticizzazione delle responsabilità dei paesi cosiddetti sviluppati per quanto riguarda questioni come lo sfruttamento delle risorse mondiali, l’inquinamento e l’imposizione di modelli sociali, culturali, giuridici ed economici.
La nomina di Wonder Woman come ambasciatrice dei diritti di genere è stata aspramente criticata dallo staff dell’ONU e da alcune associazioni femministe che hanno lanciato una petizione esprimendo il loro disappunto, soprattutto riguardo all’immagine ‘sessualizzata’ di Wonder Woman, alla sua connotazione culturale non rappresentativa delle diversità socio-culturali dei paesi del Sud del mondo e, infine, per la scelta di ricorrere ad un personaggio immaginario/dei fumetti, i cui diritti d’autore sono proprietà della multinazionale DC Comics. Nel tentativo di riflettere sulla questione, viene da chiedersi: che tipo di femminismo Wonder Woman simboleggia? La si può considerare un personaggio rappresentativo della pluralità dei femminismi a livello sia locale che globale o questa è solo la campagna promozionale di un’alleanza politico-commerciale tra un’influente organizzazione internazionale e il potere imprenditoriale globale? E infine, può un personaggio immaginario rendere visibili le difficoltà e gli interessi delle donne (e non solo) dei paesi più svantaggiati del mondo?
Innanzitutto va detto che il personaggio di Wonder Woman è stato creato negli anni ‘40 da William Moulton Marston, uno psicologo femminista convinto che le donne potessero contribuire a raggiungere gli ideali di pace e giustizia tanto auspicati nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. Da notare che pace, giustizia e prosperità hanno anche motivato la nascita delle stesse Nazioni Unite nel 1945. Wonder Woman ha avuto un’influenza importante sulla cultura femminista americana e occidentale, contribuendo a mettere in discussione lo stereotipo della ‘brava ragazza-angelo del focolare’ il cui principale scopo di vita è occuparsi di marito e dei figli. Wonder Woman è presto diventata l’immagine del femminismo liberale Americano tanto che la copertina della rivista Ms. Magazine, di Gloria Steinem – esponente di spicco del femminismo liberale americano – la ‘candidava’ a presidente degli Stati Uniti nel 1972. Sia l’immagine che le attitudini del personaggio di Wonder Woman si sono trasformati nel tempo sotto l’influenza dei disegnatori e degli editori che hanno succeduto Marston e dei vari cambiamenti politici, economici e sociali dal dopoguerra in poi. In ogni caso, Wonder Woman è solitamente associata a caratteristiche quali forza, unicità ed eccezionalità (rafforzate peraltro dalla sua commercializzazione televisiva), ma anche all’idea, di appropriazione neoliberale, che tutte le donne possono fare cose straordinarie se ne hanno l’opportunità. Un pensiero piuttosto pericoloso se si pensa che elargire opportunità senza provvedere a fornire i mezzi necessari per utilizzare queste opportunità significa, in termini sostanziali, rafforzare la disuguaglianza tra chi ha i mezzi e chi non. Questa idea di opportunità, tuttavia, sembra aver ispirato la decisione dell’ONU.
Il fatto che Wonder Woman sia un personaggio ‘queer’ che propone e può potenzialmente contribuire a normalizzare una visione più fluida delle relazioni di genere oltre la dicotomia uomo/donna è sicuramente un messaggio fondamentale, ma è altrettanto importante chiedersi fino a che punto questo messaggio possa contribuire ad un cambiamento sostanziale quando promosso da strutture istituzionali come le Nazioni Unite, dove questa dicotomia sembra essere profondamente cristallizzata. Va anche detto che Wonder Woman, almeno mediaticamente se non nelle intenzioni, rappresenta un personaggio bianco, abile e di adozione americana che rischia di riprodurre alcune delle concezioni dominanti che hanno prodotto e continuano a perpetuare disuguaglianza a diversi livelli. Come racconta Chiamanda Ngozi Adiche nel ripercorrere i suoi primi scritti, fortemente influenzati da libri Inglesi e Americani (gli unici disponibili): ‘Tutti i miei personaggi erano bianchi e con gli occhi blu, giocavano nella neve, mangiavano mele e parlavano del tempo… Questo nonostante io non fossi mai stata al di fuori della Nigeria, dove non c’è neve, si mangia mango e non mele e non si parla del tempo, perché non è necessario’. Questo dimostra come i personaggi immaginari possono in realtà creare importanti dinamiche di potere.
I movimenti femministi Africani hanno spesso sostenuto che dal periodo coloniale in poi sia le esponenti del femminismo occidentale, che le organizzazioni internazionali per la cooperazione allo sviluppo, hanno presentato le donne Africane prima come vittime di una cultura coloniale e maschilista da cui dovevano essere ‘liberate’ (congetture smontate da vari femminismi del Sud del mondo e da vari approcci critici alle teorie dello sviluppo), e dopo, come fautrici del loro stesso sviluppo e dello sviluppo delle loro famiglie e dei loro Paesi. In questo scenario, l’idea di Wonder Woman come modello, più che come strumento di messa in discussione dei modelli sociali esistenti, sembra accomodare la strategia promossa da diverse organizzazioni internazionali di fornire speranza alle donne più svantaggiate e vulnerabili e, allo stesso tempo, individualizzare la loro insostenibile responsabilità di contribuire ad un mondo più sostenibile. Questa individualizzazione di responsabilità, che chiaramente non considera dinamiche di potere economico e politico e processi di accumulazione e dispossesso, legittima l’uso di risorse e l’ausilio di cooperazioni transnazionali per creare un immaginario di giustizia sociale senza però contribuire alla sua realizzazione.
La stessa campagna per la nomina di Wonder Woman come ambasciatrice ONU è stata supportata da DC Entertainment e Warner Bros. Secondo Cristina Gallach, Sottosegretario Generale per la Comunicazione e l’Informazione Pubblica ‘questa campagna è un esempio di come nuove collaborazioni e alleanze possano permettere di raggiungere un audience più ampio per conoscere e acquisire consapevolezza dei SDGs, e in questo caso l’uguaglianza di genere, a livello globale’. L’uguaglianza di genere è un concetto che lascia diverse possibilità di interpretazione e manovra politica e non un concetto universale, in quanto l’uguaglianza dipende da svariate dinamiche relazionali e non può essere imposta dall’alto e la stessa idea di genere è sfaccettata, complessa e integrata in meccanismi di potere politico ed economico. Considerando che il film su Wonder Woman uscirà nel 2017, sembra legittimo chiedersi fino a che punto questa campagna serva a promuovere diritti di genere o se invece rappresenti la legittimazione politica dell’uguaglianza di genere come business transnazionale.
L’ONU ha recentemente fallito nell’intento di eleggere la prima donna Segretario Generale. Non che l’elezione di una donna sia sinonimo di politiche più egualitarie improntate ad una maggiore giustizia sociale, ma il fatto che dal 1945 ad oggi ogni Segretario Generale sia stato di sesso maschile manda un chiaro messaggio sull’attuazione delle tanto osannate politiche di genere all’interno del sistema ONU, e non è chiaro come Wonder Woman possa cambiare queste dinamiche. Non è detto che una donna in carne ed ossa possa necessariamente rappresentare in modo più eloquente ed inclusivo i diritti di genere a livello globale (perché gran parte delle critiche mosse a Wonder Woman valgono per le ‘ambasciatrici’ in generale), ma ci sono superoi(ne) meno commercializzati/commercializzabili, più reali e soprattutto più politici. Lo scorso luglio, ad esempio, l’immagine di una manifestante del movimento Black Lives Matter, Ieshia Evans, ha fatto il giro del mondo sui social media ricordando una supereroina contemporanea. La foto la ritrae in Baton Rouge disarmata, fiera e sicura mentre domina con lo sguardo una schiera di poliziotti armati il cui ego sembra arretrare di fronte alla forza disarmante di Ieshia. Qui Ieshia non rappresenta la sua individualità, ma simboleggia tutt* coloro che ogni giorno combattono contro discriminazioni e disuguaglianze senza armi e con forte passione. Forse sono questi i supereroi di cui l’’uguaglianza di genere’ ha bisogno.





1 pensiero su “Wonder Woman ambasciatrice ONU: cambiamento sociale o strategia commerciale?”