La Depressione Consapevole, La posta di Eretica, Personale/Politico, R-Esistenze

La Depressa Consapevole: l’autolesionismo

Una delle cose che mi tiene impegnata nella mia fase di depressione acuta è l’autolesionismo. Non mi taglio per ricamare la pelle in luoghi non visibili. In realtà mi gratto. Uso il coltello e mi gratto al punto da fare venire via la pelle. Tempo fa lo facevo anche sul viso, alla prima increspatura per la disidratazione, per l’alimentazione scorretta, tagliavo via la pelle secca. Quello che resta è una superficie rosso fuoco che mi consola a guardarla e a sentirne il bruciore. E’ un modo per concentrarmi, per tenere attiva l’attenzione. Guardo la televisione e mi spello come se fossi perennemente ustionata. Poi attendo che nascano le crosticine e taglio pure quelle e mi piace vedere il sangue che cola sulla gamba. Resta una piccola cicatrice, perché non permetto alla crosta di fare il suo lavoro. Sul viso le croste assumono un colore neutro. E’ altra pelle secca che si addensa sull’ampia cicatrice. Fronte, naso, la superficie sotto gli occhi e il mento. Sono le zone che maltratto con le unghie.

Non fumo, non tengo impegnate le mani in altro modo e dunque è complicato per me non tenere conto della spinta all’autolesionismo. D’altronde è quella stessa spinta che mi porta alle abbuffate. Fino a che non fa male. Fino all’estensione e all’ampiezza massima dello stomaco. Fino a che il fegato, generalmente asintomatico, non sembra tanto duro, dolorante, da voler abbandonare la sua postazione e scivolare via. Il sangue, le cicatrici, il dolore fisico. Sono cose che mi fanno sentire viva. Mi riportano indietro, alla realtà, sebbene sia una realtà viziata, malata. Mi tengono ferma su me stessa, e mi riferisco all’egoismo che esiste, e non so se è tale per via della depressione o se sono io che non ho proprio voglia di assumermi responsabilità. Il dolore, fino a scatenare il vomito, i brividi lungo la schiena, il bruciore per il reflusso gastroesofageo. Io sento dolore dunque esisto. Ma il dolore che ho dentro non è visibile, non so interpretarlo, non mi permette di esistere come forse potrei e non so come scacciarlo. Quello che so è che quando viene fuori il sangue poi arriva la crosta e per quanto io possa grattarla via quella rinasce ancora, in un ciclo naturale che porta la ferita a guarire.

E io? Perché non guarisco? Perché la mia vita è racchiusa in questa scatola, e se pur fatta di cartone, non trovo il punto esatto che potrebbe provocarne l’apertura?

Dialogo con me stessa, in una specie di metacolloquio, cercando di tenere lontana l’autocommiserazione, che può suonare manipolatorio nei confronti di chi mi sta vicino. Voglio tentare di descrivere quello che sento ma non ci riesco. Dottore, lei lo sa che conosco mille parole per dire la stessa cosa, però non ne trovo neanche una per esprimere il mio dolore. Posso descrivere episodi, azioni legate ad esso ma quel dolore, ebbene, non so proprio come descriverlo. A volte capita che ho voglia di nasconderlo a me stessa, cercando di razionalizzare. Ho questo, ho quell’altro, ho accanto persone che mi vogliono bene e non mi hanno mollata neppure quando avevo deciso di morire. Non mi manca niente. Ho opportunità, modo e tempo, capacità per fare tante cose, ma non le faccio. E’ tutto ibernato, nascosto dietro la paura di affrontare ogni cosa, persone, giudizi, valutazioni, richieste, pretese, corrispondenze. So bene perché lui resta con me e dica di amarmi. Mi ama perché non sono spenta, non con lui. C’è vita quaggiù, e resta pronta, per una battuta, un abbraccio, per ironizzare sulla sua meravigliosa capacità di resistere a qualunque intemperie.

Lui però non vede quando lascio scivolare il sangue, caldo, ferroso, sulla gamba. Non vede quello che faccio alle mie cicatrici. O vede e non dice niente, seguendo le indicazioni dello psichiatra che pensa sia necessario coinvolgere il mio compagno nella terapia. Almeno lui no, non voglio che si senta in obbligo e che si chieda mille volte se la sta dicendo giusta o sbagliata. E’ un uomo e non un missionario o un infermiere. Di lui voglio l’uomo. Così, forse, posso sentirmi ancora una persona, una donna, e non una malata cronica.

Finisco così, per oggi, tentando di rispettare questo impegno quasi quotidiano, e poi vado a molestare una piccola crosticina che ho sul braccio. Farò venire fuori il sangue, e poi proverò quel senso di calma. Calma, cioè. Senza esagerare.

Azzurra

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