Io so che quello che sto per dire è impopolare ma lo dico lo stesso. La storia della ragazza che avrebbe violato i termini della semilibertà per una foto su facebook sta continuando a essere pretesto per l’espressione di una Italia di destra, forcaiola, che immagina di non poter concedere a chi va in galera una seconda opportunità. Mai sorridere, mai ricominciare a esistere, mai mostrare il fatto che continui a respirare dopo aver subito una condanna. E allora smetto di parlare di questa donna, con tutto il rispetto per i parenti della sua vittima, e parlo di quel sentimento che serpeggia anche in contesti “femministi”. L’idea della certezza della pena, l’invocazione della pena di morte per reati quali la violenza sulle donne, lo stupro, il femminicidio, usando il dolore dei parenti delle vittime o delle sopravvissute, per spingere sempre più in là il confine tra giustizia e vendetta, non sono cose che riguardano solo Doina Matei. Ho visto parole di fuoco di donne che vogliono il sangue, che bene si mischierebbero ad altre persone che usano le donne abusate per giustificare razzismo qualora ad essere accusati siano uomini stranieri.
Negli Stati Uniti esiste quella cosa orrenda che si chiama, ad esempio, registro per i sex offenders. Significa che basta che tu sia andato a letto con una minorenne e vieni schedato come stupratore. Ovviamente la questione riguarda soprattutto uomini pedofili e stupratori violenti, ma che hanno già scontato la loro pena, che continuano ad essere obbligati ad assumere inutili farmaci per realizzare la cosiddetta castrazione chimica, e che non possono mai contare sull’oblio, il rispetto per la privacy, quando pure si trasferiscono di città in città per poter ricominciare. Se sei stato condannato lo sei per sempre. Non esci di galera mai. Sei oggetto di linciaggio ovunque vai. Nei casi più gravi c’è anche la pena di morte, con tutto quel che consegue, sapendo che la morte di un assassino ripaga per lo più il sentimento forcaiolo di gente a volte più pericolosa dei condannati stessi e non l’esigenza dei parenti delle vittime.
Sempre in quei contesti vivono ancora sceriffi, cacciatori di taglie, con tutte quelle belle cose da far west, e prospera l’industria carceraria che vede investitori privati a gestire le prigioni come aziende che devono essere in attivo a fine bilancio. Più gente mandi in galera e più gli investitori guadagnano. Prosperano anche istituti di rieducazione violenta per minorenni, tra i quali ogni tanto qualcuno ci lascia le penne, perché il confine tra la giustizia e la violazione dei diritti umani da quelle parti non viene sempre così tanto considerata. Per non parlare delle prigioni femminili strapiene di donne di colore o latine che nel tempo hanno perfino subito sterilizzazioni coatte per impedire che la razza bianca fosse eccessivamente sporcata di meticciato sparso.
Le premesse affinché l’Italia segua quella stessa corrente di pensiero ci sono tutte. L’apparente democraticità di certe pretese giustizialiste usa la questione carceraria per parlare in realtà di buchi neri, immondezzai, entro i quali i condannati dovrebbero perire di fame, sete, e via di questo passo. Però c’è una lieve differenza nel caso in cui esce di prigione l’italiano che ha ucciso la rumena rispetto a quel che viene detto della rumena che ha ucciso l’italiana. I titoli dei media usati come cecchini per colpire chi non avrà mai diritto all’oblio, perché se sei stato un assassino lo sei per sempre, variano a seconda della razza di chi gode dei diritti dato dalla legge Gozzini. Non hai diritto a niente che possa farti sentire ancora una persona che porta con sé il carico di un rimorso non riparabile ma che tenta di ricominciare.
Non ho pietà per le vittime? Eccome se ce l’ho, ma questo non mi impedisce di analizzare quella che è la deriva pericolosamente di destra che parte con l’accusa per una semilibertà concessa, a loro dire, troppo presto, o per quella che è stata definita una carenza di buon gusto nel pubblicare una foto in cui si sorride, e termina, infatti, con la richiesta del ripristino della pena di morte. Ricordo che una delle persone per le quali sono stata parecchio combattuta, nel dire che avrebbero dovuto tenerlo in catene per evitargli di uccidere ancora, fu quell’Izzo del massacro del Circeo. Eppure lui è uno che ha ucciso e stuprato volontariamente e che è stato condannato a fine pena mai per l’entità e la crudeltà dei suoi delitti.
Ma ho vinto quella contraddizione perché mi sono detta che le azioni di quell’uomo erano pur frutto di una cultura dello stupro misogina e fascista che consentiva spazio, attenzione positiva e legittimazione a ragazzi, italiani, di buona famiglia. A proposito dei reati che ha commesso si è tanto parlato e tanta merda è piovuta sulle donne, vittime, mentre Izzo testimoniava nei vari processi raccontando versioni quantomeno surreali che gli avrebbero permesso di realizzare quei crimini. Dove sta il popolo di destra che chiede la pena di morte, in quel caso? E per quanto quella persona mi tocchi le viscere, mi faccia decisamente venire il voltastomaco, ed è un eufemismo, perfino in quel caso mi opporrei alla pena di morte.
Ci sono donne che se una femminista usa queste argomentazioni ti chiamano “maschilista”, come se – e così non è affatto – giustificassi le violenze alle donne, e altr* che ti dicono che sei sessista perché giustificheresti le donne, ma in ogni caso delle donne che commettono reati di vario tipo io dirò e dico esattamente la stessa cosa. Allora mi permetto di ricordare i giustizialisti a fasi alterne o i garantisti selettivi che sono buoni con stupratori e femminicidi e molto meno con donne che uccidono mariti o figli. C’è sempre uno sforzo in più che deve essere fatto per occuparci di prevenzione, senza che ci si presti, come fa un certo femminismo carcerario, nella legittimazione di metodi repressivi che non ci restituiscono certamente dignità, diritti e spazi di libertà. Da una donna che, per esempio, parla di pene certe contro la violenza sulle donne e poi propone il carcere per le donne che abortiscono io non posso accettare assolutamente alcuna solidarietà. E’ lei stessa espressione di una cultura che inizia e finisce con la violazione del diritto di scelta delle donne.
Che dire poi di quel che pensano i destrorsi di chi uccide una persona trans o di chi va all’assalto di un campo rom urlando il proprio diritto allo sterminio per motivi razziali. E’ a questa Italia che vogliamo dare voce e legittimità? All’Italia che si oppone al riconoscimento di quel che è la discriminazione di stampo omofobico, che tollera saluti romani e revisionismi sulle stragi compiute dai nazi o dai neofascisti? Perché è quell’Italia, la stessa del tempo Mussoliniano in cui veniva sbattuto in galera qualcuno per mostrare che l’uomo dal pugno forte proteggeva le “proprie” donne, figlie, mogli, che emerge in questi giorni, e a me preoccupa il fatto che al di fuori delle aule di giustizia ci sia chi incentiva, richiede, maggiore repressione, demolendo la presunzione di innocenza, quando ancora un processo non è stato iniziato né concluso, o i termini di una pena che deve pur avere una fine.
Come posso spiegare che una persona non può e non deve essere considerat@ criminale a vita? Come possiamo noi, femministe, anarchiche, garantiste, raccontare di una giustizia che non passa dalle galere, con tanto di riconoscimento per il lavoro di quello stesso sistema istituzionale che in galera mette persone perché in possesso di un po’ di marijuana o perché considerati “terroristi” giacché si oppongono alla realizzazione della Tav. Io non ci sto a legittimare un sistema giudiziario che si para dietro la difesa delle persone “deboli”, donne incluse, per poi scagliare la propria furia repressiva nei confronti di chi dissente. Le persone che oggi chiedono il fine pena mai per la Matei, ci giurerei, sono le stesse che hanno detto e scritto che Carlo Giuliani era un criminale che meritava di morire, o che difendono l’operato dei tutori dell’ordine mai individuati dopo il massacro alla Diaz. C’è un altro piano, diverso, sul quale serve confrontarsi quando si parla di giustizia. Un altro piano. Capite quel che voglio dire?
Il caso di Doina Matei è estremamente semplice, secondo me: si tratta di una persona che ha usufruito di una serie di agevolazioni (ora sospese, pare, per aver contravvenuto a un vincolo riguardante l’utilizzo dei social) del tutto previste dall’ordinamento giuridico italiano, che piaccia o meno (e va benissimo che non piaccia, eh).
A chi trova ingiusto che la signora sia in semi-libertà dopo 9 anni, consiglio di pensarci meglio al momento opportuno (in sede di voto ad esempio), anziché vomitare un’inutile dose di sessismo e razzismo… più che di una reale riflessione sui temi della pena e della riabilitazione (che dovrebbe riguardare tutti, anche i colletti bianchi e non solo la derelitta di turno) si tratta di un ennesimo osso lanciato al popolino, così da distrarlo da un confronto razionale su questo ed altri argomenti.
Se la rabbia e lo sgomento della famiglia Russo è pienamente umano e (a mio parere) legittimo, non è tale l’uso che di quel dolore fanno i giustizieri di turno… che trascendono dal fatto in sé per sfogare la propria frustrazione.
Cos’è, per ogni intervento anti-Matei ricevono un’esenzione dall’IMU? Uno stage per il figlio disoccupato? L’accompagnamento per la nonna? Boh.
@S.: Interessante questa cosa del vincolo sull’uso dei social network. Hai per caso un link che lo spiega più in dettaglio?
Senza il link…lo spiego lo stesso…chi va in regime di semilibertà(o in qualsiasi altro regime carcerario o alternativo) ha delle limitazioni a ciò che può fare quando è fuori l’istituto, come ad esempio non può allontanarsi dal comune ove sorge il carcere se non perché il suo percorso riabilitativo si svolge altrove ma in ogni caso dovrà usare la.via più breve o percorsi prestabiliti. Uno dei vincoli più diffusi è la frequentazione di persone o luoghi (serve ad evitare che un criminale in semilibertà frequenti complici rimasti fuori o i giri in cui è originato il suo comportamento antigiuridico).
Chiaramente siamo nel 2016 quindi tale limite concerne anche l’uso di tecnologia atta ad avere contatti…nel caso in questione la ragazA aveva una.prescrizione sull’uso di internet e cellulare alle sole necessità lavorative ai contatti col legale e con gli assistenti sociali del carcere.
Questo non giustifica di una.virgola lo sconcio fatto da giornali e forcaioli, però posso capire il tribunale di sorveglianza dopo che sono state pubblicate le.immagini…è più o meno come se uno ai domiciliari avesse taggato il magistrato in una foto dove si ritrae fuori casa.
@K3oore: ho controllato meglio e in effetti, stando al legale di Doina Matei, pare che non ci fosse nemmeno questo vincolo specifico http://www.linkiesta.it/it/article/2016/04/13/dove-sono-finiti-i-garantisti-per-doina-matei/29958/.
La semi-libertà è stata sospesa per accertamenti, e non revocata.
Questo purtroppo conferma come le decisioni vengano assunte sull’onda dell’emotività popolare e non della legge, che può essere anche troppo clemente, lo ribadisco.
Ma il problema, quindi, è la legge… se tengono tanto alla legalità, questi signori dovrebbero attivarsi in modo civile e non riversare odio che potrebbe rivelarsi controproducente alla loro causa.