Mi sono sempre detta che avrei fatto un mestiere di cui mio padre sarebbe andato fiero, ma poi ho cambiato idea. Mio padre era un gran classista. Odiava l’idea che io mi guadagnassi da vivere facendo la cameriera per mantenermi agli studi. Odiava che io tornassi tardi la notte, con le vesciche ai piedi e i calli nelle mani. Odiava le mie bruciature, per quei piatti troppo caldi, e anche i miei racconti tratti da un improvvisato e orale diario di una cameriera qualunque. Mi chiamava sguattera e diceva che sarei finita a fare la puttana, ovvero tutto ciò che disprezzava al mondo. Diceva che la mia bocca, il mio corpo, la mia fica, sarebbero stati infettati dal malaffare, dal vizio, e ne parlava come fosse un inquisitore di almeno cinque o sei secoli fa.
La sua maniera di “proteggermi” era quella di un patriarca che univa i suoi sforzi alla matriarca che a casa mi comandava a bacchetta perfino più di quanto non facesse lui. Mi sono laureata e lui era lì, orgoglioso ma non troppo, mai soddisfatto di quel che facevo. Mi contestò il punteggio, non massimo, che mi fu assegnato, e mi contestò l’abito, non era abbastanza sobrio, ma io l’avevo pagato con i miei soldi, così come d’altronde avevo fatto con tutto il resto. D’altronde era quello che gli piaceva così tanto ricordarmi: finché spendi i miei soldi fai come ti dico io. Così per prima cosa ho recuperato un pizzico di autonomia economica e quel che è venuto dopo non è tuttavia stato così privo di imposizioni oppressive.
La mamma era una figura repressiva. Lei, più che guidarmi verso mestieri leciti, teneva sotto osservazione la mia sessualità. Era quella che si accorgeva di un succhiotto, che sorvegliava il trucco in viso per vedere se il mascara macchiava la mia pelle. A lei il sesso, credo, non piaceva affatto. Avessero fatto più sesso, i miei genitori, forse avrebbero perfino smesso di rompermi le palle impedendomi perfino di respirare. Dopo la laurea ho preso un biglietto per andare nella prima, tra le città che ho deciso di visitare. Mi sono mantenuta sempre allo stesso modo. La cameriera è un mestiere che puoi fare ovunque. Basta che impari un po’ la lingua locale e poi puoi guadagnare un minimo per sopravvivere. Fu lo stesso per la seconda, la terza e la quarta città. Poi cambiai continente e fu così che decisi anche di cambiare mestiere. Ero adatta a servire clienti mettendoli a proprio agio, e più di una volta avevo conquistato il loro sguardo, preso mance più grosse del dovuto perché affascinavo qualcuno. Decisi di mettere a frutto il mio talento e fu così che diventai una sex worker.
Sono passati dieci anni da allora e io lavoro ancora e non ho mai avuto dubbi sul fatto di dover lasciare e fare qualcos’altro. Mi piace. Mi è piaciuto. Trovo che sia un mestiere che riesce a mettermi in contatto con il vero volto di una persona. A me rivelano chi sono, che cosa sognano, cos’è che desiderano per il futuro. A me dicono molto anche quando non parlano e io traggo ispirazione dai loro desideri che giovano alle mie intuizioni. Un giorno gliel’ho detto, a mio padre, che faccio la “puttana” e lui non ha parlato, non ha detto niente, mi ha solo fulminato con lo sguardo e poi si è voltato e non mi ha più rivolto la parola. Mia madre pensa che io sia malata, o qualcosa del genere. D’altronde com’è possibile per me guadagnare vendendo servizi sessuali se a lei non piace fare sesso con mio padre? Chissà se saprà mai che forse è questione di chimica o perché non si sono dati il tempo e il modo di sperimentare. Perciò mia madre è una di quelle che perdonerebbe al marito il fatto di andare a letto con un’amante, ma con mio padre in realtà va sul sicuro perché lui non penso voglia fare una cosa per lui così imperdonabile.
Due genitori timorati di Dio, con lo stesso atteggiamento che ho trovato nelle espressioni di alcune “femministe abolizioniste” che per motivi diversi dicevano di volermi salvare. Ho frequentato per un po’ un gruppo di ragazze, politicizzate, con le quali organizzavamo incontri, iniziative. Un giorno venne una che propose di parlare di prostituzione, e disse tante cose sulle vittime di tratta, le straniere sfruttate, e mai pronunciò una parola per concedere spazio anche a quelle come me. Fu allora che decisi di fare coming out. Dissi chi ero e cosa facevo per vivere. La tizia disse che si era rivolta al gruppo sbagliato e avrebbe organizzato con altre donne. Disse che una come me non avrebbe dovuto stare in un gruppo femminista e che le vere femministe non fanno le puttane.
Nella sua espressione c’era un disprezzo, una fanatica intolleranza, che avrebbe impedito a chiunque di poter relazionarsi con lei. Non era disponibile all’ascolto. Non voleva conoscere la mia opinione. Seminò dubbi anche tra le mie compagne, le quali, effettivamente, non mi guardarono più allo stesso modo. Un po’ dicevano che forse sarebbe stato meglio non parlarne negli incontri e un altro po’ dissero che se proprio dovevo manifestare le mie opinioni in proposito avrei dovuto farlo altrove. In quel momento decisi che avrei contattato un’associazione di sex workers, molte di loro erano e sono trans, e lì mi sono sentita a casa. Lo Stato in cui mi trovo non ha un buon rapporto con le trans straniere. Molte sono latino americane, alcune sono del posto, ma quello che importa è che subiscono una persecuzione senza fine. Alcune di loro sono state già schedate, altre sono costrette a nascondersi in angoli bui. Quelle più fortunate lavorano in casa, facendo attenzione a non farsi denunciare dai vicini.
Gli Stati Uniti sono un posto strano. Esporta civiltà e libertà, così dicono, e poi esprime razzismo, transfobia, moralismo. Ci sono gruppi di femministe radicali che odiano puttane e trans, allo stesso tempo. Dicono che sono nemiche delle donne perché non sarebbero donne vere e perché addirittura pensano siano spie infiltrate e mandate da maschilisti a distruggere il movimento femminista. Di queste paranoie diffuse ne ho ascoltate tante e su alcune ho passato il tempo ridendo a crepapelle fino a quando non ho sentito dire le stesse cose da persone più note, figure pubbliche, persone che stanno in tv o scrivono libri.
Probabilmente voi non lo sapete ma le carceri americane ospitano tante trans perché puttane e/o nere. La tolleranza finisce nel momento in cui tu non vivi la vita che ti impongono di vivere, e quando sento di quanto sia poco razzista l’america, per il presidente nero, mi viene solo da ridere. Si tratta di una facciata. Ma per le strade, nei quartieri, nei centri che non sono sotto i riflettori, tutto continua uguale e a nessuno viene in mente di raccontare come sta una trans, nera, che di mestiere fa la sex worker. Mi dicono che con la mia laurea, la conoscenza di quattro lingue straniere e la mia capacità di saper coesistere con gruppi, potrei aspirare a qualcosa in “più”, perché il pensiero diffuso è che quel che faccio sia “meno”. Io posso dire che quello che faccio per me è “più” e che non accetto che mi dicano cosa dovrei fare. Non lo accettavo quando a farlo erano mio padre e mia madre e non vedo perché dovrei accettarlo adesso. Quello che so è che io ho nemici insospettabili, tra chi mi odia, odia la mia professione, odia le persone che frequento, e chi dice di volermi salvare, trovo non ci sia differenza. Da un lato c’è chi vorrebbe cancellarmi e dall’altro chi vorrebbe aggiustarmi, redimermi, con il pretesto di salvarmi.
Io sono una sex worker e sono felice di esserlo. Probabilmente prima o poi ne scriverò in un libro. Prima o poi.
Ps: è una storia vera. Grazie a chi l’ha raccontata.
—>>>Manifesto femminista in supporto dei diritti delle sex workers
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