Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Comunicazione, Critica femminista, R-Esistenze

Femminismo, linguaggi autoritari e ideologia vittimaria

nonvittima

Ogni volta che leggo i giornali cerco appositamente titoli che raccontino il martirio di questo o quel personaggio, partito politico, soggetto territoriale. Se non c’è il martirio non puoi rappresentare una vittima. Se non c’è una vittima tu non puoi vivere di luce riflessa parlando al posto suo, godendo dei privilegi che la vittima ottiene. Parlo di riconoscimenti sociali, di fama, gloria, di quel che non ti spetta più per meriti e capacità, ma solo per la quantità di ferite che mostrerai in pubblico. Che siano vere o false non importa. Ciascuno godrà del riconoscimento massimo che una società civilizzata può fornire.

Il riconoscimento della vittima, d’altronde, è segno di modernità. Chi vuole andare avanti deve procedere per forza all’ombra di una vittima, salvo poi zittirla se la vittima prende la parola e parla per conto suo. Non c’è un manifesto politico, un arroccamento identitario che non si basi su presunte aggressioni che arriverebbero dallo spazio A per colpire lo spazio B. Quando hai capito che tutta la comunicazione si muove così allora capirai perché chiunque faccia politica ti dirà di essere rappresentativ@ di una vittima o vittima esso stesso. Essere vittima suggerisce perfino che tu abbia una particolare abilità. Così ti candidano per ottenere un posto in parlamento. Ti assumono in questo o quel giornale. Ti regalano diritti faticosamente conquistati da molti altri. Essere vittima diventa una meta desiderabile, socialmente rispettata e fortemente perseguita.

Difficile resistere alla pressione che senti quando ti scontri con figure tipicamente rappresentative dell’ideologia vittimaria. Sicché, la nuova versione della comunicazione di chi sta dal lato opposto, è quella di rifiutarsi di occupare lo spazio destinato ai carnefici e creare un angolo di paradiso capovolgendo del tutto la situazione. Pensateci: la destra sa che le cose stanno così, sa che ci si muove per dicotomia rigide, nero bianco, bello brutto, nulla in mezzo, e allora altera e sovverte linguaggi per realizzare capovolgimenti con un gioco di specchi. Chi è vittima? Chi il carnefice?

È vittima un povero immigrato che tenta di varcare la frontiera e rischia di crepare in mare o la vera vittima è quello che annuncia un’invasione che significherà la perdita del controllo dell’equilibrio che ci permette ancora di respirare la “nostra” cultura? Badate che io parlo di linguaggi, e quando questi linguaggi sono sdoganati saranno adoperati da chiunque, perfino da femministe che oggi accompagnano il coro dei razzisti descrivendo la “nostra” cultura come la migliore possibile. Quella degli stranieri, invece.

Tanto esercizio di inversione semantica si riproduce attorno alla figura della donna. Identificata in quanto soggetto debole, infantile, bisognoso di aiuto, diventa quello di cui ha bisogno una società paternalista che senza una vittima, una figura di donna martirizzata, non può scatenare la guerra santa. Così uno stupro diventa il pretesto per bruciare un campo rom, una molestia diventa il pretesto per chiudere le frontiere e tutto questo viene fatto in nome delle donne. In nome delle vittime.

Ogni scelta politica viene fatta in nome di presunte o reali vittime. Quando non vuoi che la vittima si veda allora basta capovolgere la questione. Il disoccupato diventa un folle, la precaria in piazza diventa una violenta, i manifestanti che rivendicano i diritti dei lavoratori saranno definiti terroristi. Il carcere, reale o metaforico, è il destino per chi si arroga il diritto di appropriarsi del ruolo di vittima mettendo in cattiva luce chi non può di certo apparire un carnefice.

Saranno invisibilizzate le lotte sociali, le diseguaglianze. Quel che non si vede non esiste. Dunque non vedremo la povertà, le donne che si fanno male se abortiscono senza assistenza medica, quelle altre che si lasciano irretire dal modello della “famiglia naturale”, con l’uomo dal quale dipendono economicamente e che a volte le picchia. Tutto procede per esclusione e negazione. Tu non sei vittima. La vera vittima sono io, perciò zitt@, smetti di dire sciocchezze. Vince chi possiede la chiave per appropriarsi e sovvertire il linguaggio. Vince chi possiede visibilità, spazio, e occupa parentesi intere nella comunicazione. Vince chi riesce a rimettere in discussione, forando i media in un modo o nell’altro, l’ideologia vittimaria.

Se voglio fare vedere quello che mi interessa mostrare la scelta più difficile è tentare di rimettere in discussione anche la dinamica comunicativa, perché riprodurla significa offrire spunti per attendersi nuove colonizzazioni, capovolgimenti, espropriazioni. Se voglio parlare di donne non posso e non devo rappresentarle come “martiri”. Sono un soggetto forte, autodeterminato, che si distingue tra la mischia. Sono quella che non si fa strumentalizzare, non si lascia usare da razzisti e orrendi luoghi di potere. Sono autonoma, esigo di poter emanciparmi dal bisogno da sola. Non ho bisogno di essere soccorsa. Non mi serve legittimare la figura di salvatore e salvatrice che accanto a me guadagneranno in posizione politica di rendita. Non illuminerò il cammino di chi non sa fare altro che mostrare la propria idea accostandola al martirio di qualcuno. Perché quel metodo si presta alla strategia della tensione, alla falsificazione dei dati, all’allarmismo, il sensazionalismo, alla pornografia emotiva, alla produzione di fals* martiri che saranno assunt* per dare legittimità a chi ne ha bisogno. Tu, in quanto martire, servi (nel senso che sei serv@). Se non sei martire e ti rifiuti di lasciarti rappresentare, allora non esisti, non hai diritto di parola, allora sei in difetto. Pensate a quel che dicono alcune femministe delle sex workers che vogliono autorappresentarsi. Pensateci e così capirete qual è il meccanismo che mettono in scena.

E anche voi, compagn* che vi opponete alle guerre, smettete di condividere le immagini di bambini massacrati, perché non serve l’opinione di chi riesci a sollecitare solo dal punto di vista viscerale. Se chi si lascia prendere dai tuoi argomenti dice si perché mostri una bambina decapitata, significa che la volta dopo cederà al terrorismo psicologico che mostrerà la foto di un feto abortito, o meglio, la foto di quel che gli antiabortisti vorrebbero far credere sia un feto abortito.

Il femminismo ha preso questa brutta piega di lasciarsi rappresentare solo usando affermazioni forti. Descrivendo contesti apocalittici e vittimismi su vittimismi. Più riuscirete a stimolare indignazione e più vi sentite nel giusto. C’è un elemento che è conseguente o prende a pretesto l’ideologia vittimaria, la figura della vittima, il martirio di qualcun@, e che riguarda tante più persone ritengono di dover aderire ad un proposito non già perché ne sono convint* ma perché a partire da quella crociata potranno sfogare sugli altri, in genere su quelli che non la pensano come loro, tutta la frustrazione repressa fino ad allora.

L’ideologia vittimaria fa si che ogni campagna, lotta, conflitto identitario, diventa lo scontro tra religioni avverse. Identici i toni usati. Identica la violenza, l’aggressività, l’imposizione di autoritarismo. Per il tuo bene ti obbligherò a fare quel che dico io. Per il tuo bene farai come ho detto e ordinato. Tu, in quanto vittima, sei mi@, mi appartieni, e chiunque si avvicina a te è mort@, metaforicamente parlando. Per il tuo bene io aggredirò, mi sentirò in diritto di fare del male, di mettere alla gogna chi non è d’accordo con me, e così facendo non farò altro, anzi, tu non farai altro che riprodurre un meccanismo errato, non farai altro che fornire traccia di una tecnica largamente usata da chi violenta e uccide. In fondo la giustificazione perenne di violenti di ogni risma, dai bastonatori di senza tetto e di migranti ai violenti che commettono stupri e femminicidi, ai linciatori sul web, alle donne che insultano altre donne su facebook, è sempre la stessa: colpevole è la vittima. Io ho agito di conseguenza.

Cosa c’è di diverso tra l’atteggiamento di un fascista che pensa di dover difendere la vittima dell’assalto degli stranieri e quello di una femminista che pensa di dover difendere una donna da se stessa? Secondo me proprio nulla. Nessuno dei due è nel giusto. Entrambi si appropriano di uno spazio di legittimità politica per usare violenza con le parole, gli argomenti, le pratiche politiche. E se noi, che ci diciamo tanto rivoluzionarie, non riusciamo a rivedere almeno questo. Se non restituiamo il titolo di soggetto alle donne, tutte, qualunque cosa scelgano, anche se non lo condividi, non faremo altro che mimare l’autoritarismo di chi recita da sempre quella parte. Non puoi competere con fascisti convinti e razzisti di ogni tipo. Non puoi competere con gli omofobi, con quelli che, secondo noi, sono dalla parte giusta, mentre loro inventano che siamo noi a mettere in pericolo i bambini, altre figure “martiri” ideali per portare avanti una politica conservatrice.

Notate quanto è grande l’abilità della chiesa. È riuscita, in poco tempo, a capovolgere l’opinione di chi considerava i preti dei pedofili a prescindere, e oggi è la chiesa che si erge in difesa dei bambini che a scuola sarebbero contaminati dal Gender. A gestire le campagne di comunicazione, il marketing, per la Chiesa devono esserci dei mostri di bravura. Basta usare una narrazione tossica che diventa virale e attraverso i potenti mezzi di comunicazione che la chiesa possiede diventa anche l’unica verità possibile. L’arma della paura, l’ideologia vittimaria, sono pratiche e spazi usati e occupati da chi, autoritariamente, vuole imporre la propria idea sull’altr@. Siete d’accordo sul fatto che un certo femminismo, da un bel po’ di tempo, ha deciso di fare propria la tecnica di comunicazione clericale per raccontare di noi quel che neppure immaginiamo di essere?

Non solo vittime ma addirittura sante, crocifisse, martiri e asessuate. Madri/mogli sacrificate, sottomesse. Madonne e non donne. Sante e mai puttane. Prostrate, piegate, incapaci di reagire. La nostra “natura” sarebbe diversa da quella dell’uomo. Migliori, più meritevoli di tutto, capaci di provare sentimenti colmi di altruismo. Si rimette in scena il copione del bene contro il male, con annesso lieto fine. Ma se è quella la guerra che stiamo combattendo, o che alcune pensano di doverci far combattere, che ruolo hanno ormai le femministe? Se la pensano così non hanno altro che un ruolo di conservazione, normalizzazione. La donna, con la propria eresia, sessualità, blasfemia, imperfezione, sporcizia, non viene liberata. Viene rinchiusa perché puoi solo apparire bella o brutta, con me o contro di me. Con quelle “femministe” o con i maschilisti.

Quel che da tempo cerco di fare è creare uno spazio per chiunque abbia voglia di manifestare la complessità. Desidererei oggi che si svolgesse un dibattito su questo. Una discussione sui metodi, che sono sostanza politica, almeno lo sono per me. Non importa quante belle parole userai se non ascolti, non rispetti lo spazio di mezzo, quello della gente che non vuole appartenere, non vuole essere usat@ da nessun@. Non importa quanti crocifissi porti al collo o quanti simboli femministi ti stampi sul corpo, se tu usi i loro stessi metodi, se tutto quello che sai fare è demonizzare l’avversario, contrapporre il bene al male, non solo non sei riuscit@ a sovvertire la cultura che ci opprime ma la rafforzi opponendo spazi crudelmente normativi ad altri spazi normativi. Di là la schiavitù e di qua un’altra schiavitù, perché la liberazione è in me. È un processo lento e autonomo che devo superare. È una porta che io da sola devo imparare ad aprire. È la mia capacità di convivere con il dolore, gli errori, la mia fragile o forte umanità. La liberazione per me può essere quel che tu consideri una schiavitù, perché siamo diverse. Lo siamo e basta. E tutto questo non ci impedisce di essere sorelle. O impariamo a unirci e dividerci, con reciproco rispetto, intuendo le nostre reciproche diversità o non c’è alcuna liberazione per tutt* noi.

Io non sono vittima. Non sono il “bene”. Non sono il meglio che tu possa mai trovare. Sono vittima e carnefice, bene e male, meglio e peggio. Sono incerta e ho certezze. Sono altruista o egoista. Io sono una persona. E non è forse per questo che le femministe si sono battute prima di me? Perché le donne potessero ottenere il diritto di essere considerate persone. Dunque, care, vi siete perse quell’ora di lezione di femminismo o avete deciso, volontariamente, di propinarci una versione autoritaria di esso? Fatemi sapere. Io sono sempre qui.

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