Avete mai sentito parlare del femminismo? Quello a partire da sé e non quell’altro di chi si impiccia degli affari di altre donne imponendo loro delle norme che corrispondono ad una banale morale comune.
Il femminismo a partire da sé ti chiede quello di cui tu hai bisogno. Non ti distrae con cause che portate avanti altrove, come se le donne che vivono altrove non sapessero difendersi e stabilire per se le soluzioni al proprio problema. Il femminismo parte da te, dal tuo territorio, è postcoloniale, e afro, è islamico, è trans, è sex positive, e puoi incontrare le narrazioni d’altre solo portando un tuo contributo alla discussione. Lotte locali, movimenti globali. È a partire da te, dal tuo territorio, che la tua lotta assume credibilità e riesce a portare ad altre l’esperienza di chi una lotta l’ha fatta sulla propria pelle e non per cognizione teorica acquisita da intellettuali che vorrebbero scrivere la storia anche al posto tuo.
Prima dell’11 settembre 2001 il neocolonialismo e la ventata sovradeterminante di certe “femministe” non era più così di moda. Erano le destrorse ad essere preoccupate al posto delle donne afghane, senza chiedere a quelle stesse donne cosa avrebbero voluto fare per salvarsi. Di sicuro non volevano che gli Stati Uniti destituissero un governo per metterne lì un altro ancora più misogino. Di sicuro non volevano che piovessero bombe sulle loro teste e non volevano che il proprio territorio fosse occupato al punto da doverle costringere a fare lotta comune in un crescendo di integralismo che metteva al primo posto il no all’occupazione.
Il neocolonialismo è tendenza diffusa di certi uomini e anche di certe donne che nel corso della guerra che gli Stati Uniti dichiararono al “terrorismo” non solo cominciarono a esaltare la figura dell’eroe patriottico e nazionalista ma anche il ruolo della donna che aspetta l’eroe, vivo o morto, in casa con i bambini, a recitare il copione della vedova affranta e della madre santissima ad abbracciare il figlioletto al quale veniva consegnata la bandiera in nome della quale il padre aveva combattuto. Le donne occidentali che dicevano di voler salvare le donne mediorientali non fecero altro che ottenere la delegittimazione delle femministe di altre terre che dovettero adeguarsi, anch’esse, alla logica di sostegno del guerriero patriottico e nazionalista.
Gli ultimi quindici anni sono così trascorsi nell’esaltazione di quella cultura che ha riguardato anche noi. La destra che esalta i “nostri ragazzi” e in nome dello stato di guerra, in politica interna, stringe la morsa repressiva attorno ogni tipo di azione critica e dissenso. Il dibattito si fa sempre più complicato da gestire e tutto ciò conduce ad un 2011 in cui donne che non avevano mai aperto bocca contro le leggi sull’immigrazione, i Cie, le riforme economiche, le precarie, le senzatetto, le occupanti di case vuote sgomberate con la forza, le studentesse costrette a lasciar perdere gli studi per il costo impossibile da sostenere, la sanità lasciata ai privati, gli obiettori in gran numero, i servizi territoriali ridotti al minimo e mille altre questioni ancora, decidono di seguire la scia lasciata da quelle preoccupate per il destino del corpo delle donne e celebrando la nazione, la bandiera italiana e i 150 anni di unità d’italia, con comunicati sempre rivolti alle donne “italiane”, le donne perbene, le madri, le mogli, le etero, proclamano lo stato d’emergenza per questioni di lana caprina.
I corpi delle donne, senza che nessun@ chiedesse l’opinione delle donne da “salvare”, la mercificazione, senza che si accertassero di non votare le riforme economiche che ci hanno ridotto alla precarietà, e qualche anno dopo le filosofie delle signore trasversalmente impegnate a salvare le donne, dall’alto del loro scranno borghese, si arricchirono di opinioni espresse ciclicamente, per ogni campagna elettorale, a portare le donne a votare questo o quel partito, generalmente il Pd, e sfidavano le donne di destra sul loro stesso terreno. Quelle con il velo le salviamo noi di destra, invece no, le salviamo noi di centro sinistra. Le infibulate le salviamo noi di destra. E invece no, eccetera.
Le donne dimenticarono di porsi quesiti su quel femminismo a partire da sé, anestetizzate com’erano a sopperire all’emergenza culi in vista sui manifesti pubblicitari, per la cui soppressione le “ancelle del neoliberismo”, come furono definite in seguito da femministe (rare) che si rimisero in discussione, erano dedite intruppare le giovani leve di un attivismo rondarolo alla scoperta dell’elemento indignante che occupasse le prime pagine dei giornali per giorni e giorni.
Le donne smisero di occuparsi della propria vita, la propria difficoltà oggettiva, e scesero in piazza per la difesa, astratta, dei corpi delle donne. Alla faccia dell’economia basata sullo sfruttamento dei corpi, tutti i corpi, in qualunque settore lavorativo, le signore borghesi erano propense a mettere in discussione solo le attività lavorative di donne, modelle, show girl, attrici, cubiste, sex worker, spogliarelliste, cameriere sexy e chissà che altro, che per lavoro mostravano il corpo. Posavano per immagini sexy, vendevano servizi sessuali.
Sospesa restava la domanda che ciascuna avrebbe dovuto fare a se stessa per impedire che il femminismo diventasse un insieme di crociate portate avanti da donne fanatiche che vittimizzavano le altre senza neppure chiedere quale fosse il loro problema più impellente. Quel femminismo diventò un’arma di distrazione di massa, condita di una serie di narrazioni tossiche viralmente diffuse e in nome delle quali le donne, per esempio sui social network, si scannavano senza più avere la capacità di parlarsi senza giudicarsi, portando con sé solo la propria esperienza e non la presunzione di una visione universale da imporre a tutte.
La domanda è: qual è il problema che tu hai, vivi, gestisci, affronti? Lo affronti o sfuggi pensando alle donne che vivono altrove? Sei precaria? Indipendente? Hai un lavoro? Vivi da sola o con i tuoi? Sei dipendente economicamente? Subisci violenza? Puoi andartene? Non puoi? Perché? Sei disabile? Sei in grado di badare a te stessa? Puoi permetterti di comprare tutti i presidi medici? Sei madre? Riesci a trovare un lavoro avendo un figlio? Hai perso un lavoro perché sei madre? Riesci a condividere la genitorialità con il padre di tuo figlio? Riesci a perseguire i tuoi obiettivi? Ce la fai a mantenerti all’università? Insomma, tu, che problemi hai?
Eppure sono domande semplici: parlami di te, della tua condizione fisica e psicologica, del tuo aspetto, di come il modello estetico influisce su di te, e questo è l’antisessismo che ci riguarda, dimmi se stai bene o male con il tuo corpo, se puoi vivere la sessualità come ti piace, se trovi la pillola del giorno dopo, se puoi abortire, se puoi, insomma, affrontare ogni tuo problema, e ripeto tuo, sapendo che quel tuo problema ce l’hanno tante altre. Quindi il punto è che se risolvi il tuo problema, ciascuna per sé, allora puoi mettere in comune il tuo sapere, la tua esperienza, nella quale alcune si riconosceranno per poi trovare una propria, personale, soluzione, senza che tu la imponga come soluzione per tutte ma solo offrendola come sapere da condividere perché è una ricchezza e non un limite.
Tra le narrazioni tossiche c’è quella della prostituta nigeriana sfruttata, vittima di tratta, che viene posta sul tavolo della discussione per delegittimare la narrazione di donne che hanno scelto di vendere servizi sessuali. C’è poi quella della donna indiana che è costretta ad affittare l’utero, e questo porta le fanatiche di queste crociate in nome delle altre, quasi sempre povere e di altre nazioni, a delegittimare la volontà di donne che gratuitamente prestano l’utero per questioni affettive e non economiche. C’è la narrazione tossica della donna con il velo, e viene usata dalle donne che supportano correnti islamofobe che puntano alla cacciata dei migranti, alla chiusura delle moschee e all’esclusione sociale, dai posti di lavoro, dalle scuole, dai luoghi pubblici, delle donne con il velo per questioni di “antiterrorismo”.
Qualcuna di voi ricorderà una vicenda controversa. Una vittima di tratta, nigeriana, denunciò una guardia per violenza. Fu denunciata per calunnia, condannata, incarcerata, rinchiusa di Cie in Cie, espulsa (?). Di quella nigeriana non mi pare si siano occupate le borghesi preoccupate per la sorte delle vittime di tratta. Perché la logica applicata da certune somiglia esattamente a quella usata dai fascisti quando perseguono il bene delle persone migranti purché restino in casa propria. Chiusi i corridoi utili alla migrazione le donne si affidano a chiunque pur di lasciare fame e povertà. Anche la prostituzione diventa un mezzo di emancipazione. Questo è da considerare per quelle donne che scelgono “volontariamente” di sottostare a quel ricatto. Ci sono donne che invece sono tratte con l’inganno, o rapite e costrette fin da subito ma il problema principale, che dovrebbe essere risolto, e quello delle nostre frontiere chiuse. Dove sono le borghesi femministe quando c’è da combattere lotte contro provvedimenti razzisti?
Dell’utero in prestito ho già parlato ampiamente, così anche di altre pratiche sedicenti femministe che in realtà sono autoritarismi applicati sulla pelle delle donne.
In definitiva, allora, qual è il vostro problema. Qual è il femminismo a partire da ciascuna di voi? Quali sono le vostre rivendicazioni? Considerando che le lotte si conducono affiancando i soggetti e non sostituendosi alla loro voce, così come le signore moraliste e borghesi fanno quando si parla di sex worker, donne con il velo, donne che prestano l’utero, per quali lotte vorreste essere affiancate? Qual è il motivo che vi spinge in piazza? E dite: dov’erano le “femministe” borghesi quando la vostra casa è stata sgomberata, le tasse universitarie sono aumentate, la vostra vita è andata in frantumi perché avete perso il lavoro, quando avete dovuto lasciare tutto per tornare a vivere dai genitori, quando avete dovuto dimenticare quel che siete perché siete perse in tanta precarietà, solitudine? Non siete sole, e la forza che deriva dalle lotte collettive può venire fuori se mettete in comune quello che per voi davvero costituisce un problema. Perché altrimenti restate comunque sole. Il femminismo diventa solo un modo per sfuggire alla vostra realtà, per non affrontare la vostra vita. Perché altrimenti quello di cui stiamo parlando non è femminismo ma è solo quel che si conclude in senso autoritario. Ci sei tu che parli in nome di altre e ci sono le altre che esigono di poter parlare in proprio nome. Ecco perché ci sono guerre tra donne, a partire dal mancato rispetto dell’autodeterminazione di tutte. Tutta colpa di chi si appropria di alcune cause, le colonizza, e le restituisce al pubblico con un paternalismo e un moralismo evidente. Dal personale al politico: raccontami di te. Questo è il femminismo che ci piace.
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L’ha ribloggato su Fino alla vittoria, sempre.e ha commentato:
” Eppure sono domande semplici: parlami di te, della tua condizione fisica e psicologica, del tuo aspetto, di come il modello estetico influisce su di te, e questo è l’antisessismo che ci riguarda, dimmi se stai bene o male con il tuo corpo, se puoi vivere la sessualità come ti piace, se trovi la pillola del giorno dopo, se puoi abortire, se puoi, insomma, affrontare ogni tuo problema, e ripeto tuo, sapendo che quel tuo problema ce l’hanno tante altre. Quindi il punto è che se risolvi il tuo problema, ciascuna per sé, allora puoi mettere in comune il tuo sapere, la tua esperienza, nella quale alcune si riconosceranno per poi trovare una propria, personale, soluzione, senza che tu la imponga come soluzione per tutte ma solo offrendola come sapere da condividere perché è una ricchezza e non un limite.”