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Tempo, maternità, passione, sentimento: così è la mia vita!

Lei scrive:

“Ciao Eretica, come fossi un diario di una sola pagina, voglio consegnarti un pezzetto della mia storia, scritta di getto e senza ripensamenti, senza paura di quanti vorranno leggere, questo sprazzo di me, assolutamente convinta che nulla valga di più della verità del nostro essere persone al mondo, a volte smarrite, impaurite, irrimediabilmente perse, altre coraggiose, combattenti, che vedono già oltre i muri.

Sono una donna sulla trentina, non sono sposata e non aspetto con ansia il ‘grande giorno’, la cerimonia in se non vale più del bacio della sera sulla bocca del mio compagno: quello più di ogni celebrazione testimonia il nostro volerci stare dentro, del resto allo sgrano dei rosari ho sempre preferito accarezzare i miei capelli e pensare a dio come a quel gesto.

Ho un figlio di due anni, e per me che non sognavo una famiglia al gusto retró, è arrivato conquistando tutta la mia attenzione, tutte le mie risorse, ed ho voluto fin da subito adoperarmi per lui, e allo stesso tempo lasciare che ne avesse pari cura il padre, che da allora e sempre riempie il suo ruolo di tutte quelle azioni, quelle stesse cose che faccio io, sia emozionali che pratiche.

Quando mi confronto con altre persone, riporto subito la mia realtà, anche per contrastare quell’attegiamento mentale che porta alcuni a lasciare invariati vecchi stereotipi di coppia, senza neanche tentare di cambiarli: storie antiche che insistono sul “io son donna e provvedo a mio figlio autonomamente, perché il padre non sa fare nulla”. lo non potrei mai stare con un uomo che non abbia là sensibilità di vedermi per quello che sono: una persona, non un ruolo. Per cui si fa tutto insieme (comprese le pulizie di casa) seguendo i ritmi delle giornate, gli orari diversi e le nostre possibilità. Oggi sono dunque mamma, ma sono anche un’altra persona ancora rispetto a quella di molti anni fa: sono una faccia, un corpo, un nuovo vissuto che non mi ha lasciata immutata.

Ho partorito mio figlio in una notte che sa di avvento e altre cose magiche, di sgomento e arte arcana – ma come mai avrò fatto a farlo nascere da sola? Da sola io nel mio corpo, da solo lui nel mio, così insieme da essere una parte di universo, un pianeta che brucia in una notte più profonda delle altre. Quando uscii dalla sala parto pensai che non avrei mai più voluto scopare tanto furono dolorosi i punti che mi diedero, non il parto, che ricordo come rapido, una marea che si alza all’improvviso e poi torna al livello conosciuto. Quei punti invece, sono il dolore che ricordo, e che mi allontanò momentaneamente dalla mia passione per la passione.

Con la dedizione e l’amore infinito del mio compagno, tornai presto a gustarmi senza sensi di colpa quel sesso vero e non più verosimile che ho scoperto con il mio amato: il primo sesso in cui davvero ho sentito cosa significasse godere fino allo sfinimento, come un animale in un bosco, nuda fino all’anima, ricolma di luce e buio in pari misura, sporca e santa da genuflettere, Giovanna d’arco e la sua spada al comando di un esercito di desideri. Trovo il sesso una parte fondamentale della vita. L’ho sempre saputo, anche quando non lo facevo, anche quando da piccola non volevo ‘fare l’amore’ con nessuno, ma quanto era bello fare l’amore con me.

Mio figlio oggi è una ragione in più per non avere paura di nulla, eppure, paradossalmente ha innescato in me meccanismi di difesa e di sopravvivenza che mi hanno messa in difficoltà; nell’anno successivo al parto sono arrivati degli stati di ansia e degli attacchi di panico. Ho indagato a fondo dentro me per capire cosa stesse succedendo. Il punto era sempre lo stesso di quando ero bambina e di notte piangevo nel mio letto: ero tanto triste al pensiero che un giorno noi saremmo morti, noi tutti, dove noi era per me la capienza esatta del mio cuore, e ogni cosa e ogni persona che potesse contenere.

Così il mio panico si lega stretto alla paura di morire, di non esserci più, di finire soffocata da quell’ansia di vivere tutto quello che ancora voglio, e di vivere quello che non voglio. Di restare seppellita da una terra nera che non ci riconosce più padroni del nostro futuro.
Con la gravidanza ho perso il lavoro, e fino ad ora non l’ho più ritrovato. So che sono in molt* ad essere nella mia stessa condizione. Ma oggi che sono oltre che donna anche madre, ancor di più non accetto etichette, non voglio che nessuno mi dica chi devo essere esattamente, quali devono essere le cose che ci si deve aspettare da me, cosa sia giusto per me a seconda dell’età che vivo e via dicendo. Non mi piace neanche definirmi disoccupata: trovo sia un modo come un’altro, in questo Paese, per farci sparire nell’invisibilità di un numero, di una percentuale, e farci smettere di essere persone con nomi, cognomi, intere esistenze.

Gli stati di ansia stanno passando, ho attraversato il primo anno di vita del mio bambino imparando a non annegare in un mare altissimo, schiumoso, di una bellezza atroce, spaventoso e spettacolare, fatto di pesci mai visti prima, fatto di giorni a morire di sonno e a cercare qualche minuto tutto per me, fatto di disperazione generata da un nuovo senso di impotenza, perché il mio bambino piange, piange come me, soffre come me, e io già mi rendo conto che non posso salvarlo da quella parte dolorosa della vita che, anche se non abbiamo mai saputo perché, ci spetta. Così, mi rendo conto, mentre il panico sfuma giorno dopo giorno in una nebbia ad altezza cervello, che i pensieri più lucidi sono quelli che ci svelano il tempo che abbiamo perso ad immaginare con certezza le vite degli altri, quando anche di loro, così come spesso di noi certi giorni, non ne sappiamo nulla.

Sono una donna fortunatissima, e in questi tempi così tristi e cinici, urlo tutto l’amore che conosco, sapendo di poter sembrare una pazza che urla in una brughiera deserta. La mia fortuna non significa certo felicità h24 e serrande sempre aperte nel negozio dove danno via gratis il buonumore. Ne’ vuol dire non avere pesi da gestire, giorni passati da dimenticare o tristezze e rinunce da metabolizzare. Ma per me, che non sono cattolica praticante, e che ancora certe volte mi domando dov’è che andremo a vagare, se vagheremo mentre il nostro corpo se lo mangerà la terra, per me vale ancora il principio di quella carezza sui capelli. Se esiste un dio, di cui non so nulla, di cui non sento l’odore ne’ intravedo le forme, quel dio è qui adesso nei miei occhi, e si rifrange in quello che vedo, è nel rumore delle sedie spostate quando ci mettiamo a tavola non tanto per mangiare ma per continuare a parlarci, e nell’abbaio del mio cane quando suonano il citofono o nel vederlo la notte vicino al vetro della finestra a respirare l’aria scura di questo inizio inverno, e si, è nei capelli di mio figlio, nel suo volto, in questa strada dove ci siamo incontrati anche se nessuno di noi sa se ci sia uno scopo.

Di certo ha una destinazione. E non ci vedo nulla di romantico o di fatalista in questo senso di infinito che mi pervade quando penso alla mia famiglia. O meglio, mi piace pensare che se romantico dev’essere, che sia una pistola puntata dritta sullo schifo con cui vorrebbero riempire le nostre vite, sulle critiche asettiche e sulle polemiche inutili, sulle varie fazioni di gente che non vede l’ora di fare i ‘giusti distinguo’, e sentenzia cosa sia opportuno tu debba contestare, come dovresti scopare, cosa e chi dovresti amare, come dovresti vestire, quanto tempo devi essere stata donna per dirti donna, cosa è corretto per ogni figlio e specialmente per il tuo, quali sensi di colpa devi avere, come puoi espiare e via discorrendo. Un colpo dritto a queste perdite di tempo, mentre il tempo scorre, scorre sulle parole inutili, e lascia indietro chi lo ha sprecato per dirle.
È l’ora di cena, vado a sedermi al tavolo con la mia famiglia, a dare un bacio ai miei amati, così, un bacio d’amore senza pudore alcuno. Con coraggio, con tutto il sentimento che posso, che è tutto quello che ho.”

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