Quando si parla d’aborto si immagina sempre di dover essere molto obbedienti, rispondendo alla violenza dei contenuti antiabortisti con la pacatezza delle donne che – ferite – temono di sfidare l’autorità invece che esprimere la rabbia che hanno in corpo. Ma non è tutto qui. Ci sono compagne che per aver occupato farmacie che non vendevano la pillola del giorno dopo o per aver pisciato davanti a obiettori di coscienza che vendono servizi sanitari si beccano la presa di distanza di chi va a manifestare in fila per due. Ci sono compagne che per aver lasciato una bella scritta sui muri sono guardate con la puzza sotto il naso da chi vorrebbe fare battaglie pro/choice senza sfidare proprio nessuna autorità (patriarcale). Sono le compagne con la puzza sotto il naso, quelle che pensano sia incisiva una mediazione con chi ti fa schiava, ritengono sufficiente una quieta dimostrazione indignata.
Ma cosa meritano quell* che ci lasciano marcire quando chiediamo un contraccettivo o quando siamo in fila in attesa di un aborto? Cosa meritano quell* che ci chiamano assassine perché non dipendiamo da nessuno e rivendichiamo la nostra libertà di scelta? Quanta sofferenza infliggono, per poi attribuirci le sconfitte delle donne o ci dicono che avremmo commesso chissà quali crimini. Bisogna stare sempre a testa bassa, senza mai pensare a chi vorrebbe impedirti un aborto come il nemico che in realtà è. Allora vi racconto dell’esperienza di donne latino americane, una delle quali mi racconta quel che pensa a tal proposito (sintetizzo una conversazione in spagnolo/inglese e rispetto il suo desiderio di non essere nominata perché lei indossa il passamontagna anche su internet).
“Cara Eretica, vivo in una nazione in cui l’aborto è illegale e nessuna di noi si sognerebbe di scendere a patti con le stesse istituzioni che ci criminalizzano. Noi abbiamo scritto sulle pareti della città la nostra denuncia e le nostre rivendicazioni. La notte siamo entrate in posti inaccessibili per affiggere striscioni che parlano di tutto il nostro disprezzo contro i no-choice. Le chiese sono diventate il posto in cui frequentemente volantiniamo, perché di donne che hanno abortito illegalmente se ne trovano ovunque. Una di noi è stata arrestata per aver spruzzato vernice colorata su fascisti che ci perseguitavano. Un’altra è stata messa contro la sua stessa famiglia perché ha descritto i cattolici come sadici terroristi che vogliono vedere torturare le donne. Noi non chiediamo una legge ma vogliamo che l’aborto sia considerato solo uno dei tanti servizi sanitari offerti senza nessun compromesso.
Non c’è una legge per assistere donne con piccoli e grandi problemi di salute: perché dovrebbe allora essercene una per dire alle donne quello che possono fare o non fare del proprio corpo? La legge italiana – che è sempre meglio che niente – in fondo non vi concede nessuna libertà. Vi dice solo che potete muovervi entro un paio di metri della galera in cui siete rinchiuse. La vostra non è libertà di scegliere perché se sei davvero libera non sei giudicata dall’opinione pubblica, non ti è negata assistenza dagli obiettori di coscienza e non dovrebbero trattarti come una potenziale assassina il cui omicidio, che non smette di essere considerato tale nella mentalità istituzionale, viene legalizzato entro le prime 12 settimane.
Noi vogliamo tutto. Vogliamo essere considerate responsabili e adulte. Vogliamo essere trattate come lo sono tanti uomini che non hanno nessun limite per gestire la propria vita. Non stanno sotto sorveglianza, continuamente, come lo siamo noi. Ci sorvegliano quando rinunciamo a un figlio, quando lo partoriamo e ci dicono come crescerlo, quando ci obbligano a interpretare un copione per tutta la vita. Le donne si muovono lungo binari prestabiliti e le istituzioni patriarcali ci concedono solo qualche metro in più per darci l’impressione di essere libere ma non lo siamo.
Se non abbiamo la consapevolezza che tutto quel che ci concedono è aria fritta e che abbassarci ad elemosinare diritti non è giusto miriamo all’obiettivo sbagliato. Tu parli di muri e io ti dico che ci lasciano spazio all’interno di un recinto. Chiedere a chi costruisce e sorveglia quei muri di allargarli un metro in più non significa che non saremo più prigioniere. Non serve essere gentili nella lotta. Noi vogliamo distruggere quel recinto perché non ci interessano i compromessi sui quali buttiamo letteralmente merda. La nostra politica è sporca, noi non vogliamo essere esempi di purezza.
Non ci interessa farci classificare dalle autorità che divide le manifestanti buone da quelle cattive. Noi siamo senza dubbio cattive, siamo streghe, come quelle che venivano uccise tanto tempo fa perché praticavano l’aborto. Una femminista che porta la merda davanti alle sedi delle istituzioni non è mediaticamente appetibile come una Femen, e forse può essere giudicata infantile, ma a noi non interessa scendere a compromessi neppure con i media. Restiamo donne anonime, come tutte quelle che ogni giorno combattono tra le mura delle proprie case, vittime di violenza domestica e di violenza economica ed istituzionale. Noi non chiederemo il permesso. Non stringeremo mai la mano di chi vive nel privilegio basando la propria idea di società su regole inique e una tirannia economica alla quale non sappiamo reagire. Noi non vogliamo sedere allo stesso tavolo con chi ci ha svenduti al Dio dollaro, con chi discrimina donne povere, meticce, immigrate, per ottenere la libertà di tiranneggiare la propria gente. Cos’è allora più consono: schernire e distruggere simboli del loro potere o chiedere permesso alle autorità per portare un cartello in piazza?
Abbracci e buona lotta”
Leggi anche:
Neofondamentalismo e dintorni parte II. Perché salvare la 194 non basta
#Cile: risignificare #8Marzo. E’ giorno di lotta femminista!
“Noi vogliamo tutto.” Si. Ed è bellissimo leggerlo, sentirlo ancora. Buona lotta anche a te, a voi! Un abbraccio.