Autodeterminazione, La posta di Eretica, Personale/Politico, Precarietà, R-Esistenze, Sessualità, Storie

Sono una sex worker e preferisco i mondi senza ipocrisie

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Sono arrabbiata, perché la vita non va come dovrebbe, perché non trovo alleati in questa mia corsa quotidiana, perché mi sento molto sola anche se so di non esserlo, perché vorrei urlare al mondo tutta la mia disperazione e invece me ne sto qui, zitta, a facilitare l’esistenza a molti senza trarne alcun beneficio. Non sono nata per fare la martire e non mi interessa godere di stima incondizionata da parte del mondo intero. Starei benissimo anche se mi insultassero dalla mattina alla sera, ma l’ipocrisia mi uccide, questo modo di fare per cui tra un mezzo sorriso e uno sguardo glaciale mi fai intuire quello che pensi di me ma non lo dici con chiarezza.

Perché non parli? Perché non riesci ad affrontare il conflitto fino alla massima conseguenza? Perché mi tieni legata al cappio invece che dirmi quello che pensi così da darmi la libertà di scegliere se mandarti a fare in culo o no? Guardo le mie mani e mi sono accorta adesso che le unghie sono tutte rosicchiate. Non faccio sesso dallo scorso dicembre, non so perché ora sto pensando a questo ma mi viene in mente. È quasi un anno che non scopo con nessuno e mi masturbo raramente. Prima di oggi non è mai stato così. Mi appartavo con chi mi piaceva, mi lasciavo irretire dall’odore. Amavo come fosse il mio ultimo orgasmo.

Non ho fatto figli, non mi interessava. Ho abortito sei anni fa. Quanti anni avrebbe oggi se avessi fatto un figlio? Forse cinque anni o poco più. Dovrei condurlo stringendogli la mano per non lasciarmelo scappare. Dovrei parlargli dolcemente e preoccuparmi anche per lui. Non sarei stata in grado e poi non so neppure se mi sarebbe piaciuto farlo. Non amo particolarmente i bambini. Non amo i ragazzini. Amo decisamente poco anche gli adulti a dire il vero. E nel frattempo mi guardo allo specchio e vedo i miei capelli con una lieve ricrescita. Dovrò tornare a fare il colore. Un tempo ero bionda ma poi ho deciso di diventare bruna e da allora non faccio altro che nascondere la mia vecchia identità. Metto il rimmel scuro, le mie labbra sono scure, è scuro anche il mio smalto. Prendo il sole appena posso, perché odio la mia pelle bianchiccia e priva di carattere.

Quando il mio ex si è fatto mollare sono rimasta lì a guardare, ferma, senza reagire. Ho rimesso la mia casa a posto, ho aperto una bottiglia di vino, ne ho bevuto un bicchiere, poi ho acceso la televisione e mi sono fermata a guardare un programma di merda in cui si parlava del nulla. Mi bastava solo riempire la casa di rumore, per non dare spazio ai brutti pensieri. La sera dopo invitai le “amiche”. Una la conosco da sempre e l’altra è amica dell’amica e non c’è verso di poterle vedere separatamente. D’altro canto la mia amica dice che un po’ è stata colpa mia, perché da quando mi sono messa con lui l’ho lasciata sola. E giù con le crisi di abbandono, ché non mi bastava essermi sorbita quelle del mio ex. Ci si mette anche lei, ora. Perciò si è procurata una fanciulla scema, che ride per niente e spara cazzate che inquinano le conversazioni. Ho fatto male ad invitarle. Mi sono sentita ancora più sola. Vorrei dire anche a loro quel che penso e invece mi comporto come le persone che odio. Sorrisi di circostanza mentre dissimulo la noia e l’impazienza.

Sono uscite dalla mia porta, e penso anche dalla mia vita, intorno alle undici e un quarto. Sera. In strada è tutto buio. Qualche cretino deve aver censurato la luce del lampione. Allora spengo anche la luce dentro casa, così sto alla finestra senza che mi veda nessuno. Ho in mano il telefono e cerco di capire se nel mondo virtuale ci sia qualcuno con cui parlare della mia tristezza. Mi chiama in chat un tale che mi ha chiesto l’amicizia qualche mese fa. Dice che avrebbe voluto dirmi da tempo una cosa in particolare e senza suscitare in me grande curiosità alla fine si rivela solo uno dei tanti che cercano di rimorchiare in rete. Per una sega virtuale, per qualche illusione, per sfuggire al proprio mondo, per mascherarsi da quel che non si è. Stacco senza salutarlo. Mi sono rotta anche delle teste di cazzo come lui.

Tolgo le scarpe e poggio i piedi nudi sul pavimento freddo. È troppo freddo e mi sveglio più di quel che vorrei. Mi spoglio senza impegno e lascio la mia roba poggiata su una sedia. La mia stanza è strapiena di abiti poggiati e mai rimossi. Per trovare una mutanda penso di dover scavare tanto da immaginare lo slip ormai murato come un fossile. Vorrei chiudere gli occhi ma non riesco a lasciar perdere la mia più grossa urgenza. Sto per perdere il mio posto di lavoro. Non so cosa dovrò fare da ora in poi. Maledetta vita precaria. Mi sono rotta le palle di questa incertezza, l’insicurezza che mi accompagna ogni giorno, senza poter fare programmi o acquistare qualcosa che non sia strettamente necessaria.

Ricordo che qualche tempo prima una ragazza mi aveva parlato di un lavoro che per lei si era rivelato una salvezza. Non le ho dato il tempo di spiegarmi e in effetti lei era stata un po’ restia nel farlo. Devo avere il suo numero di telefono da qualche parte, così la chiamo e chiedo. Chissà che non ci sia posto anche per me. Le mando un messaggio. Ho paura di disturbarla. Invece lei mi risponde subito. Dice che è già fuori e possiamo incontrarci in un pub in centro. Mi rivesto, mi trucco un po’, lascio indietro il maglione anche se fa decisamente freddo. Mi sembra tanto strano uscire a quell’ora e non vedevo un pub da secoli ormai. Chi ha i soldi per bere e divertirsi?

La trovo a chiacchierare con un tale che non conosco. Credo non lo conosca neanche lei. Lo licenzia e mi accoglie con un grande abbraccio. Dice che è felice che io l’abbia cercata. Ha sicuramente qualcosa che fa al caso mio. Mi dice che oramai lei è introdotta nell’ambiente, può darmi una mano e passarmi dei clienti.

Ci diamo un appuntamento al giorno dopo per farmi delle foto che servono per il mio book. Vado senza grandi pretese anche se intuisco che la cosa essenziale per le foto non è di certo il mio abbigliamento. Mi spoglio, come se l’avessi fatto già mille volte. Resto un’ora a girarmi e rigirarmi, muovermi e piegarmi e alla fine credo di aver svelato a quel fotografo più di quel che il mio ex abbia visto mai. Il book è essenziale per fare due cose: film porno o sex working. Nel primo caso io recito, lui recita, e tutti quanti recitiamo. Non ci sono sorprese. Il copione è già scritto. Nel secondo caso, quello in cui si guadagna di più, io recito, lui non recita e può esserci spazio per l’improvvisazione. Rispondo che sono aperta a tutto. Mi importa guadagnare e soprattutto stare tra gente che non mente e riesce a guardarmi negli occhi senza ipocrisie.

Lei dice che potrò cominciare con qualche scena porno. Posso fare un provino e poi, se voglio, anche se i due mondi sono totalmente separati l’uno dall’altro, posso darle una mano, anzi, una figa per soddisfare i desideri di qualche cliente. Si guadagna bene, l’orario è flessibile, non dovrò pagare il parrucchiere per coprire la ricrescita perché al mio look pensano loro, e poi farò sesso senza impegno, per gioco, per lavoro, perché è quel che voglio adesso. Il primo casting non va bene. Dicono che non hanno bisogno di me ma che mi chiameranno in seguito. Dico alla mia nuova amica di passarmi un cliente e lei mi dà il riferimento di uno tranquillo. Vuole cose precise e non va mai oltre quelle.

Sono nella sua stessa stanza. Siamo distesi sullo stesso letto. Abbiamo fatto una doccia insieme e stiamo aspettando il momento buono per sentirci in sintonia. Nudi, zitti, mano nella mano. Vuole pagare per due ore di servizi sessuali. È troppo facile. Sembra tutto troppo facile. Ricordo quel che ho sentito dire ad altre donne. Parlano di mondi pieni di depravazione, fatti di gente violenta. Che io abbia visto la violenza solo nei nuclei familiari o nei rapporti di coppia non può essere un caso. È facile, mi sento bene, a mio agio, gli vendo un piacere che non ho mai dato a nessuno e quando le due ore sono passate io, finalmente, respiro come mai fino ad ora. È quello il lavoro che voglio fare e ora sto bene. Maledettamente bene.

Ps: è una storia vera. Grazie a chi l’ha raccontata.

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