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Sorridi: sei sul canale delle mamme sempre felici!

palloncino

Lei scrive:

Tengo gli occhi puntati verso la finestra per evitare le facce compiaciute dei presenti, i palloncini in corridoio e i fiori sul tavolo  un po’ perché ho bisogno di una doccia -e quando ho bisogno di una doccia non c’è cristo che tenga, tutto il resto passa in secondo piano-  ma anche perché non li trovo in sintonia con l’avvenimento a cui stanno assistendo. Penso al dolore, alle spinte, al pianto liberatorio della mamma e del bambino, così necessario già in natura che se non succede tutti si guardano negli occhi per capire cosa c’è che non va.

E lo trovo così lampante, che adesso non ci sarebbe sollievo se non ci fosse stato prima un periodo di tensione e sofferenza . Ma tutto il luogo, l’arredamento, i palloncini in corridoio, i fiori sul tavolo e la cicogna di peluche comprata all’ultimo minuto direttamente in ospedale, il colore delle pareti che si rifà a non so quale principio fondamentale della cromoterapia sembrano volerlo negare assecondando il bisogno spasmodico di schematizzare almeno gli avvenimenti principali della vita. Qualcuno un giorno scrive su un blocnotes “Morte: sofferenza estrema.”-perché sa che è così, l’ha provato sulla sua pelle e ha fatto brevi sondaggi in giro per confermarlo- poi traccia una linea verticale un po’ tremolante e vi scrive di fianco “Nascita: gioia estrema.”.  Lo schemino spopola e il segreto del suo successo è piuttosto semplice: non ci piace soffrire, e fare una discarica di brutte sensazioni ci regala l’illusione che sapendole tutte lì la gente impari dove si buttano e non le venga l’idea di spargerne altre in giro per il mondo. Ma signora infermiera, lei lo sente chiarissimo il sapore sciapo del prezzo da pagare per  rendere una cosa più innocua forzandone la coerenza. È vino annacquato . Per dire. Che a me piace anche.

Mi tengo stretta  al braccialetto bianco dell’ospedale, che è  un gadget decisamente più carino della cicogna  rosa di peluche e non me lo chiedo nemmeno quale dei due finirà dritto nella pattumiera.

Osservo l’evidenza delle infermiere che fanno il loro lavoro cambiando le lenzuola sporche, dei medici che fanno il loro lavoro tirando le tendine prima di auscultare i pazienti, di Carlo Conti che fa il suo lavoro conducendo un programma per chi deve occupare il tempo tra le 5 e l’ora di cena e la cosa più spontanea è che anch’io faccia il mio lavoro, e cioè sorridere. Perché in sintesi non è forse questo il compito di una mamma?

Sorridere dai primi istanti dopo il parto e fingere di essere una madonna avvolta nella sua luce bianca mentre tira fuori un seno vergine lavato da ogni peccato e lo offre alle labbra ingorde della sua nuova, unica ragione di vita. Mentre le chiedono se non sia straordinario che un attimo prima stai così male e un attimo dopo così bene. “Allora, come ci si sente? Noti qualcosa di diverso?”.

Io effettivamente una cosa la noto, ed è l’antiestetica ineluttabilità della pancera dell’attimo dopo a cui pare che mi debba arrendere. Me ne hanno già regalate due e qualcosa dovrò pur farci.

Immagino uno scalda collo per due gemelle siamesi e sull’onda di un sorriso fuori tema mi cullo fino ad addormentarmi. Un ultimo sguardo alla farfalla della flebo, che spero voli via durante la notte e mi porti il racconto di tutti i bei posti che ha visitato.

Io, purtroppo, devo restare qui.

 

Maria Vittoria

 

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