
Pezzo in lingua originale pubblicato QUI. Traduzione di Antonella. Buona lettura!
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In che modo il Governo e le Lobby Cristiane hanno Addomesticato la Vera Ricerca sul Sex Work
di Jupiter Fitzgerald
Nell’ultimo decennio, e con una certa competenza, ho duramente lavorato come sex worker. Ho portato avanti la mia attività in bar e stanze d’albergo, sul set di porno femministi e in torbidi peep show. Ho lavorato anche nel mondo accademico, un affare presumibilmente altrettanto torbido. Se c’è qualcosa che ha avuto un impatto notevole, qualcosa che ha prodotto uno spostamento culturale in entrambe le mie occupazioni nel corso degli ultimi 10 anni è stata la crescente attenzione – a dirla tutta una vera e propria ossessione – per il sex trafficking. Questa non è la prima volta nella storia recente in cui acculturati “beneintenzionati” rivolgono la loro attenzione alla più subdola e spregevole delle creature – La Puttana.
Così come documentato dalla storica Judith Walkowitz — che negli ultimi 30 anni ha condotto ricerche sulle controversie legate alla sessualità nel 19esimo secolo, la rappresentazione del pericolo sessuale nella Londra tardo-vittoriana emerse come proiezione di una diffusa instabilità politica e culturale. A causa delle ansie della borghesia legate alla scalata verso l’alto delle donne sex worker durante il passaggio del secolo, la narrativa riferita al pericolo sessuale circolava quale giustificazione per il controllo dello stato sui corpi delle donne povere e sul loro comportamento sessuale.
In maniera per nulla sorprendente, la storia si ripete. La trattazione contemporanea del sex trafficking è stata inglobata in maniera così forte nella narrazione dell’industria del sesso, che la fondamentale distinzione tra attività forzata e scelta consapevole è del tutto scomparsa. L’analisi fondamentale del lavoro soggetto al capitale è stata abbandonata in favore della narrazione della pericolosità del sesso. Abbiamo ormai tutti una certa familiarità con i dati standard diffusi: “l’età media della prostituzione forzata è di 13 anni” e “negli Stati Uniti ogni anno 300.000 bambin* sono ridotti in schiavitù sessuale”. Questi cosiddetti dati sono tratti da uno studio chiamato “Lo Sfruttamento Sessuale dei Minori” dei ricercatori Richard Estes e Neil Alan Weiner ed è stato fatto circolare e diventare ufficiale a partire dal Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti. E questo nonostante i ricercatori abbiano indicato nelle loro conclusioni che “Le cifre illustrate [nel progetto di ricerca] non riflettono i numeri reali dei casi di CSEC (Minori Sfruttati Economicamente e Sessualmente) negli Stati Uniti…”
Dati più attendibili suggeriscono che il maggior numero di casi legati al traffico di esseri umani si hanno nel settore agricolo, nel lavoro domestico, nelle attività di ristorazione e nelle fabbriche ad alto sfruttamento. Tuttavia, a causa la recente legge federale che fa confusione tra sex work e sex trafficking, è quasi impossibile indagare oggettivamente sui casi di schiavitù sessuale tra i giovani. Come spiega Lulu – minorenne vittima di tratta – “se la prostituzione fosse stata legale quando sono stata oggetto di trafficking [in un bordello clandestino], le altre donne [quelle non vittime di tratta] avrebbero potuto chiamare la polizia senza paura di essere incriminate loro stesse per trafficking… Invece, poiché sono stata “salvata”, sono rimasta vittima della tratta di stato …i miei soldi vanno a chi lavora nel sociale …i genitori affidatari mi detestano …e (per questo) vivo in strada”.
Lo studio di Estes e Weiner fu abbondantemente finanziato dal Dipartimento di Giustizia e fonti di informazioni-chiave per lo studio furono organizzazioni umanitarie che ricevono denaro federale. In sostanza: un progetto di ricerca finanziato a livello federale è stato basato sull’analisi di performance di organizzazioni finanziate a livello federale e ha dichiarato “adeguata” la performance del governo federale. Ovvero: il governo federale sta, di fatto, citando sé stesso quale buona causa per le sue decisioni in materia di finanziamenti.
Forse quale risposta alle critiche ricevute in ambito accademico, il Dipartimento di Giustizia ha deciso in un momento successivo di finanziare uno studio etnografico di portata nazionale sui giovani homeless coinvolti nella compravendita di sesso. Insieme ad un certo qual numero di ricercatori, tra cui Ric Curtis e Meredith Dank dal John Jay College di giustizia Criminale di Manhattan e Barbara Brents e Andrew Spivak del Dipartimento di Sociologia dell’Università del Nevada-Las Vegas, sono stata assunta in qualità di etnografa per il progetto del valore di 500.000$. Le nostre scoperte più significative hanno fatto a pezzi tutti gli stereotipi più diffusi ed accettati relativi alla prostituzione minorile – i giovani coinvolti nella compravendita del sesso raramente hanno riferito di avere un pappone e quasi sempre hanno descritto il sex work come la maniera più sicura per auto-sostentarsi. Un’altra questione affiorata nelle 100 e oltre interviste da me condotte: i giovani hanno regolarmente riferito di molestie e di comportamenti sessuali inappropriati da parte di tutori della legge, assistenti sociali e genitori affidatari. E certamente: la narrativa a sfondo razzista di “trafficanti” che abusano dell’innocenza sessuale di ragazzine bianche continua a caratterizzare le politiche di risposta. Diviene così urgente una domanda ovvia: perché?
E’ ben documentato il fatto che dietro a molte delle cosiddette linee di battaglia anti-trafficking degli Stati Uniti ci sia una delle più vaste e conservatrici lobby di Washington – Shared Hope International – tali linee sono politicamente e socialmente legittimate a mescolare il sex work con il sex trafficking. Non è certo un segreto che la destra religiosa si oppone alla prostituzione su un piano puramente moralistico. Ideologie regressive sul gender e la sessualità contribuiscono all’idea che la prostituzione sia una bancarotta morale per le donne e che, di conseguenza, la salvezza ad opera di Dio sia l’unico percorso per la “redenzione.” Come conseguenza di ciò, le sex worker – e quelle considerate donne deviate, spesso donne povere – divengono capri espiatori per le ansie che circondano il sesso e la sessualità più in generale.
Forse è meno noto il nesso che c’è tra gli appartenenti a quelle lobby, le organizzazioni no-profits contro il trafficking, la distribuzione di denaro federale destinato alle ricerche accademiche e la conseguente diffusione della narrazione che si riferisce alla minaccia sessuale.
Nel 2009 Shared Hope International ha ricevuto mandato dal Dipartimento di Giustizia per una ricerca relativa al sex trafficking minorile negli Stati Uniti. Il rapporto che ne scaturì, “The National Report on Domestic Minor Sex Trafficking: America’s Prostituted Children,” così come per quello precedente di Estes e Weiner del 2001, utilizza il linguaggio moraleggiante del “salvataggio” e della “redenzione” senza fare distinzione tra donne e minori o sex worker e vittime di tratta.
Poi, nel 2013, Shared Hope International sostenne lo Justice for Victims Act, che autorizzava il Dipartimento di Giustizia ad appropriarsi di 25 milioni di dollari l’anno per finanziare ricerche nel periodo 2015-2019 per studiosi e organizzazioni statali che dichiarassero di combattere il trafficking. Poiché le “ricerche” finanziate a livello federale hanno magistralmente mescolato il sex work con il sex trafficking – attraverso le lenti deformate della propaganda religiosa e delle destre – “combattere lo sfruttamento sessuale” è ora sinonimo di controllo di stato sui corpi e sui comportamenti sessuali delle donne povere.
Questo, per ricercatori come Spivak, porta ad una “…polarizzazione degli studiosi in fazioni …che finisce per ridurre la loro attività ad una ricerca di prove destinate a scopi politici piuttosto che a produrre risultati su basi scientifiche.”
Ricercatori come Brents, le cui estese ricerche sull’industria del sesso attraversano quasi due decenni, vengono accolti con un certo grado di diffidenza. “Quando professionisti e lavoratori del sociale scoprono che le mie ricerche non necessariamente supportano la criminalizzazione della prostituzione” dice Brents “si rifiutano di collaborare con me …perché temono di perdere i finanziamenti a loro garantiti.” Ricorda poi di come un suo progetto di collaborazione – creato per assistere sex worker di strada e vittime di tratta – venne tenuto in stallo dopo che fu chiara la sua posizione relativa alla criminalizzazione. Brents dice ancora: “Sembrerebbe che rischino di perdere i loro finanziamenti persino se vado a prendere un caffè con loro.”
Una recente audizione della Suprema Corte — Agency for International Development v. Alliance for Open Society International — ha stabilito che è costituzionale negare fondi per ricerche che “promuovano, supportino o rappresentino …la prostituzione.” Ron Weitzer, un sociologo specializzato in criminologia e professore presso la George Washington University, spiega gli effetti agghiaccianti di tale decisione:
“Qualche anno fa …un bando di progetto fu emanato dall’Istituto Nazionale di Giustizia. Conteneva una clausola per cui il candidate doveva certificare di non sostenere la prostituzione o la legalizzazione della prostituzione. Quando contattai per email la persona responsabile presso l’Istituto chiedendo se non si trattasse di una violazione del “free speech” non ricevetti risposta.”
La narrazione paternalistica del pericolo sessuale conduce a due possibili effetti su accademici sex worker quale io sono – o ci viene “restituita” la nostra naturale, femminile innocenza con l’attribuirci l’identità di “ex” prostituta, oppure attiriamo critiche puntigliosissime di chi vede il sex work incompatibile con il rigore intellettuale. Come spiega Jenna, una studiosa e sex worker che ha recentemente completato un master di studi in una università del Southwest “Molti dei miei colleghi e colleghe si comportano con me come se io fossi capitata nell’ambiente [accademico] per sbaglio. E infatti un dei miei relatori mi ha suggerito che potrei ‘superare’ la mia attività di sex worker lasciandola nel passato ed esprimendo nei confronti della stessa vergogna e rimorso.”
Allo stesso modo Vivian Salt, una sex worker che ha di recente ottenuto un master in sociologia da una prestigiosa Università di New York, spiega che “a causa della criminalizzazione del sex work …e della necessità di una narrazione univoca che rinchiuda le persone in categorie …le sex worker vedono ridotte le loro caratteristiche ed esperienze unicamente al sesso.” In ambienti politici e lavorativi in cui il sesso è percepito come “poco professionale”, inadeguato (consideriamo ad esempio la violenta reazione paternalistica contro educatori con un passato di sex worker), e addirittura intrinsecamente dannoso, accademici sex worker sono invece trattati “con i guanti bianchi” dice Salt. “C’è qualcosa di davvero molto interessante nel passaggio che nel mondo accademico si ha tra il “sostenere” l’industria del sesso in contrapposizione con il farne parte; ed è quel passaggio che può risparmiarti l’essere infantilizzata da parte dei colleghi e delle colleghe.”
Le narrazioni infantilizzanti del pericolo sessuale, quando affiancate alla criminalizzazione e alla demonizzazione delle sex workers, hanno un profondo impatto sulle donne ai margini della società. Più in profondità di qualunque studio accademico o campagna politica, a ferire in profondità sono le associazioni dolorose e emozionali prodotte dallo stigma sociale legato al sex work. Le parole più dure che mia madre ha pronunciato dopo aver scoperto la mia attività d sex worker sono state “esci da questa casa e non farci mai più ritorno.” La convinzione della oscura indegnità della Puttana – unitamente alla pesantissima insistenza secondo cui dovrebbe ristabilire la sua purezza sociale attraverso il pentimento – è stata perpetuata abilmente dagli attuali crociati della morale, che hanno ansie del tutto simili ai loro omologhi tardo-vittoriani. E’ chiaro che maggiori ricerche sono necessarie nell’ambito di questi discorsi morali. Ma non mi aspetto certo che per studi di questo tipo possano arrivare finanziamenti.
* Tutti i nomi dei/delle sex workers, inclus@ l’autrice, sono pseudonimi
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