Ho visto cose. C’è stato un periodo della mia vita che è stato caratterizzato da una grande confusione professionale. Devo questo racconto ad amici e amiche perché ho promesso e devo farlo. Dunque, dicevo, ero professionalmente un po’ disorientata. Finisce un lavoro e ne becco altri tre. Al mattino mi occupo di comunicazione e pubblicità, al pomeriggio mi occupo di telefonia erotica e alla sera faccio la cameriera. Nulla di nuovo, direte voi, e in effetti non ne ero minimamente scandalizzata. Non accusavo neppure la stanchezza perché l’adrenalina era tanta e tale che finché stavo in piedi riuscivo a tirare dritto fino a notte tarda. Gli ostacoli principali di queste mie professioni erano tre.
L’incapacità informatica del mio capo alla mattina, la presenza in sorveglianza del mio capo al pomeriggio e un cazzo di gradino tra la cucina e la sala nel mio lavoro della sera. Tenete conto che nei primi quindici giorni di quella vita perdetti esattamente un chilo al giorno, che in tutto fanno 15 chili. Ero talmente abituata a metabolizzare, giusto per dare risposte verbali o fisiche automatiche, tutte le pressioni o le difficoltà al punto che potevate vedermi saltellare uno scalino invisibile al mattino, fare marketing pubblicitario e lezioni di informatica al pomeriggio e usare la voce sensuale, roca, e l’abc erotico la sera. L’ultima temporanea crisi identitaria, tanto per dire, mi faceva pure guadagnare perché prova a prendere un ordine con voce calda e sensuale e portargli la pizza dicendo che è taaaaanto calda e poi vedrete come fioccano le mance.
Sempre in quel periodo, ovvero quando meno te lo aspetti, mi è capitata una cosa anche piuttosto piacevole. Conosco uno, ci guardiamo in un mio post servizio di camerierato, lui pare figo, io sono figa, e finiamo a letto insieme. La prima volta fu una esplosione ormonale che non vi dico, giacché date le mie difficoltà, ed essendo per di più madre, non avevo avuto molto tempo per beccare una storia sessualmente appetibile. Perciò mi considerai piuttosto fortunata, dopotutto. Potevo passare sopra le stronzate del mio capo e dell’altro mio capo e dell’altro ancora e poi trovare conforto in un bell’orgasmo di quelli che scarichi la fatica e sei oggettivamente come nuova. Sapete tutt* di quanto possa essere terapeutica una buona trombata.
Avendo perciò fruito della terapia di quella volta cercai, anzi, cercammo disperatamente di incontrarci ancora senza poter trovare un buco – e non intendo quel che pensate voi – per vederci. A sera tardi ero solo disposta a schierarmi senza se e senza ma con il materasso che mi attirava come miele con le mosche a schiaffarmici sopra. Alla mattina ero ancora inguardabile, non so che tipo di alito mi portassi dietro e dato che dovevo alzarmi presto non mi potevo concedere neppure una sveltina ina ina. Il pomeriggio devo dire che ero già molto provata dai tanti orgasmi che riuscivo a provocare solo con la potenza della mia voce e allora non restava che il giorno libero, mai uguale per ogni lavoro, il lunedì per il camerierato e la domenica per gli altri due lavori, per incontrarci e fare finta di riuscire a sopravvivere per darci dentro e obbligarci ad avere un orgasmo anche se arrivava con difficoltà.
Un paio di volte si svolse tutto all’insegna di un “t’u giuru, è ‘a prima vota ca succeri” (te lo giuro. È la prima volta, cazzo, che mi succede”, al quale succedeva un “di solito nun sugnu accussì… sangu’, mi devi credere, non è per male o perché non mi paci… mi fai un sangue che non ti dico ma la parte di sotto non riceve”. Solo alla terza volta dichiarammo la resa perché ci addormentammo per la stanchezza e finì così. Un giorno ero davvero devastata e dopo il primo work, vado al sex telefonico work, sempre in bicicletta, perché la benzina costa e perché ovviamente non avevo ancora perso sufficienti chili per diventare invisibile, sono già vestita con la divisa per il camerierato, gonnina corta nera e camicetta bianca, con calzoncini da ciclista sotto che avrei tolto quando sarebbe stato il mio turno di entrare in scena alla sera, insomma arrivo e mi adagio sulla postazione più comoda che c’era. Un divanetto, piccolo e di colori vivaci, con il telefono poggiato su un tavolinetto a fianco e io approfitto della temporanea assenza del capo e mi sbraco, allungo i piedi, chiudo gli occhi, mentre la voce si fa più sensuale e poi ancora più sussurrata fino a sparire perché mi addormento nel bel mezzo di un amplesso.
Mi fossi addormentata durante il lavoro d’ufficio il capo mi avrebbe cazziata dicendomi che non potevo lasciare a metà dell’opera, non so, la redazione di un progetto o l’organizzazione di qualcosa. Mi fossi addormentata alla sera mi pare chiaro che il capo mi avrebbe fatto ricoverare perché addormentarsi mentre fai i cento metri al minuto era pressocchè impossibile. Se ti addormenti mentre c’è un tizio che ti sta dicendo che hai la sua minchia in bocca e glielo devi succhiare, secondo voi, che genere di rimprovero può esservi riservato dal capo? Ottenni una lezione sull’importanza della costanza nella prestazione per la piena soddisfazione del cliente. Poi mi fece anche una lezione sull’andamento dei toni da tenere, e vi giuro che per un attimo mi fece impressione perché parlava in falsetto e cominciò a fare le smorfie, poi chiarì che era importante non farlo venire subito perché era indispensabile farlo durare ancora, finché la telefonata arrivava al termine (accadeva in automatico ogni tot minuti), così da farlo richiamare per un altro scatto alla risposta e altri guadagni.
Fino a quel momento non avevo ancora provato l’imbarazzo di veder simulata una telefonata da un capo che tutto sommato ci osservava tutto il giorno e ci faceva segno con le dita, l’ok o il pollice in su, per dirci che stavamo andando alla grande. Neppure per la sessione di frustate telefoniche mi ero sentita così a disagio. Per me fu quasi un trauma d’ilarità, perché non riuscivo a smettere di ridere e la risata non finì neppure quando uscendo mi resi conto che qualche pezzo di merd… scusate… qualche povero in fase di esproprio proletario si era fottuto il sellino della mia bicicletta. Mi mancava di cavalcare con il tubo tra le chiappe ed ero a posto. Quella mia vita durò per qualche mese e sopravvissi nonostante tutto. Quel che non sopravvisse fu quell’amore precario che mai più fui in grado di sperimentare. In compenso ci fu un cliente telefonico che si innamorò della mia voce e chiamava dieci volte al giorno per sentire me. Era un cliente sicuro. Dicevo “come stai?” e lui già si eccitava. Quando arrivavo al “forse, ma proprio forse, ti slaccio i pantaloni” lui era già bell’e venuto.
Ricordo quel periodo come una delle fasi più faticose ma anche più ricche, dinamiche e creative della mia vita. Un solo amore non abbandonai mai, che era quello della scrittura. Perché bisogna viverla per raccontarla, la vita, come diceva Marquez, e io vivevo a sufficienza per raccontarla per dieci anni a venire. Ogni notte spendevo un po’ di tempo per comporre un diario che non ha letto quasi nessuno, e non l’avrei più riletto neppure io se giusto oggi non avessi rovistato tra le mie cose per trovare niente po’ po’ di meno che il mio diario di qualche anno fa. Vi anticipo solo la sua conclusione: “ho visto cose. Il resto l’ho udito. Ed è comunque stato un gran piacere.”
Oh wow, giuro, wow, che meraviglia!!!