Addormentata presto, svegliata presto. Mi sento un po’ di merda. Capita a volte di voler sentire la mia voce, nell’atto di raccontarmi, mischiarmi alle altre voci che normalmente ascolto, perché anche la mia storia sia parte della vostra. Ieri sera ti ho visto fare un gesto. Stavo a occhi chiusi, perché la testa girava troppo, e tu hai tentato di afferrare il mio respiro, con la mano a corteggiare la mia bocca. Non so come dev’essere stare con me, così abbattuta, a volte, o troppo ironica in altri casi. Non sai mai come sto veramente, e hai paura, tanta paura di perdermi. Non c’è ragione per cui tu debba preoccuparti, ma a guardare quella mano, messa lì per intercettare il soffio che dà notizia del mio stato di vitalità, mi si è stretto il cuore.
Resto emotivamente lontana, a volte, da chi mi vuole bene, perché non voglio parlare di quel che mi succede, perché se ne parlo io non sarò più io. Perché non sono solo quella che ha la bocca che sa di merda e il corpo che manca all’appello qualche volta. Sono una persona, che pensa, ride, ama. Ho molte cose da dire e fare e mi spiace, sul serio, non poter aiutare chi si preoccupa per me. Mi spiace non riuscire a mettermi nei loro panni, confortarli, assumere una posa quieta, negoziando per la mia liberazione quando la loro ansia sarà sopita.
Non ci sei solo tu, mi ha detto un’altra persona cara, un bel po’ di giorni fa. Non ci sono solo io. La mia vita non vale solo per me ma per tutte le persone che mi vogliono bene e che mi ascoltano anche quando io non penso sia così. Dovrò trovare un po’ d’energia e altruismo per rassicurarli, dire che andrà tutto bene. Sarò una cyber-donna (or queer) ed è tutto quel che voglio. Ho sempre sognato d’esserlo, non vedi, car@, che sorrido? E incontro uno sguardo severo, perché non capisco. Probabilmente è vero. Non capisco un cazzo.
Si avvicina la data in cui mi affetteranno e poi starò sicuramente meglio. Non mi piangete come fossi morta perché non ho nulla che non si possa riparare. Quel che temo di più è il dolore, al mio risveglio, ché sono stanca di sentire male, di empatizzare col mio corpo con tale e tanta intensità. Non voglio più ascoltarlo e allora aumenterò il volume della musica che martella nelle orecchie. Hai fatto trenta e ora fai trentuno. Ci sei quasi e hai fatto così tanta strada in questa lotta così solitaria, e intendo quella che ho vissuto e vivo con me stessa. Un altro po’ di forza, per me, per gli altri, e sarà tutto okay.
Dalla finestra guardo l’alba. Rumori delle prime anime sveglie. In ogni casa ciascuno ha le proprie pene. Non bisogna mai pensare di essere soli nel dolore. Non è un privilegio che spetta solo a me. Io sono solo una tra le tante. Perciò devo liquidarlo in fretta e smettere di essere così avida ed egoista. Rapidamente soffro, ché poi ha da soffrire un altro e poi un altro ancora. In mano ho la tazza blu, ricordi? Quella che hai comprato in quella gita al mare. La stringo forte, per compiere un furto di calore. Sorseggio, quieta. Adoro i colori del primo mattino.
Tra un po’ dovrò ricominciare il mio percorso medicamentoso, andrò a far visita alle colleghe e ai colleghi d’ospedale. Mi aspettano altri racconti, altre storie, altre risate, grazie a chi, come me, non ha alcuna intenzione di restare a macerarsi l’anima con domande alle quali siamo stanch* di dover rispondere. Devo ricordare di portare le cuffie doppie, perché c’è la sessantottina, collega di poltrona accanto a me, che vuole ascoltare un po’ di jazz blues. Porto il mio solito libro di fantascienza, o quello nuovo, perché quello che sto leggendo non mi piglia, mi annoia a morte e se anche la trama è eccezionale, se un libro non è scritto bene, io non riesco a leggerlo. Di turno, oggi, c ‘è quell’infermiere che mi fa morire dalle risate. L’unico che non mi strappa via le vene dieci volte prima di trovare quella giusta in cui infilare l’ago. L’unico che non rompe le palle quando a noi pazienti parte la risata fragorosa che si sente per tutto il reparto. Invece c’è quell’altra, immusonita, forse piegata dalla vita, che pensa d’esser la maestra e arriva sibilando un shhhhhhhhh impaziente. Smettiamo un attimo e appena lei si allontana, come fossimo alunne discole di una scuola per ragazze, ricominciamo a ridere e a prenderci per il culo.
Tesoro, ascolta, non devi preoccuparti. Abbracciami di più e non temere. Sarebbe troppa grazia da parte mia voler lasciarti in pace. Così sposti i miei capelli che non mi danno tregua. Sempre scombinati, non c’è modo di farli star quieti. Sento il tuo abbraccio e un caldo bacio al collo. Ti amo tanto, dici. Ti amo anch’io, rispondo. Si ricomincia. Uno, due, tre, quattro…
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