Abbi rispetto per te stessa, diceva una ragazza che frequentava la mia stessa classe. Non le piaceva il fatto che andassi in giro con camicie trasparenti e minigonne. Ti notano perché tu mostri il corpo, mi rimproverava, perché se lo facessi anch’io mi ritroverei con la stessa mandria di uomini attaccata al culo.
Poi la scuola finì. Io mi iscrissi all’università. Lei andò non so dove. Non abbandonai il mio look, per quanto fosse davvero difficile ritagliarmi qualche amicizia con una donna che non sentisse l’obbligo di farmi la morale. C’era sempre la questione del rispetto, la dignità, l’amor proprio. Le più politicizzate tiravano fuori una sorta di femminismo bacchettone che veniva praticato da alcune ragazze incazzate che per ogni buon voto che prendevo mi davano comunque della zoccola perché secondo loro ero scorretta.
Sono quelle come te che rovinano tutte noi – e c’era ‘sta tipa che tra una paternale e uno slogan lanciava anatemi su tutte “quelle come me”. Provai a chiedere “ma il femminismo non dovrebbe appoggiarmi per qualunque scelta? Se a me piace vestirmi così, a voi che cazzo ve ne frega?”. Per prima cosa mi dicevano che non capivo. Poi mi fecero capire che per ogni centimetro di pelle che lasciavo scoperto dall’altro lato del pianeta una donna sarebbe pressappoco morta. Infine tirarono fuori la carta della consapevolezza. Io affermavo di essere libera di scegliere di vestirmi così “come si veste una zoccola“, e quelle mi dicevano che ero certamente succube di un maschilismo strisciante che mi possedeva dall’infanzia. Il rituale d’esorcismo cominciò proprio a partire da questa errata convinzione. Avrei scelto liberamente solo se avessi fatto quel che piaceva a loro. Diversamente non mi riconoscevano il diritto di scegliere un cazzo.
Il fatto è che io sono nata così, non posso farci niente. Anche con un jeans e una maglietta mi noterebbero, e non capisco per quali ragioni dovrei imbruttirmi. Per farle sentire al sicuro? Devo suicidare il mio aspetto perché così quelle che non mi somigliano potranno avere qualche chance in più? Ma perché mai danno così tanto valore all’estetica, loro, se dicono che in realtà non conta? Perché mai scagliano giudizi incattiviti nei confronti di quella che è diversa da loro? Quando le guardo io non vedo come sono fatte esteriormente, e anche la bellezza, per me, è un fatto soggettivo. Io vedo belle alcune persone che per altre forse non lo sono. Se guardo te mi interessi per quel che saprai dirmi o darmi. A me interessano i contenuti che esprimi e non ho mai fatto discriminazioni, io, a differenza di quelle che mi scartano a priori perché temono gli freghi il fidanzato o perché pensano che io sia un’oca giuliva.
Ne ho conosciute tante di donne impegnate, intelligenti, eppure così tanto paurose e insicure da non rendersi conto del fatto che stanno sempre sulla difensiva. Indossano divise, armature, scudi, e portano armi per combattere contro chiunque a loro sembri una nemica. Incoerenti, contraddittorie, barricate dietro un muro all’interno del quale vorrebbero far rimanere tutte. È il muro che separa i pensieri liberi da quelli dogmatici. Di qua io faccio quello che mi pare e di là devo seguire la tua linea per appartenere al branco.
Grazie al mio aspetto ho anche avuto facilità a trovare lavoro. L’immagine per alcun* è tutto e anche se non sempre lo è, in effetti, c’è chi cerca una dipendente dotata, preparata, competente ma anche curata e bella. Per lavorare io ho comunque partecipato a selezioni durissime. Fatto mille colloqui, prove attitudinali, test e ho dovuto studiare moltissimo. A volte mi sono preparata anche di più perché mi sono rotta le ovaie di sentirmi dire che mi assumono perché sono bella. E insisto nel dire che la bellezza non è data da valori universali. Sarò bella per alcune persone e per altre invece no. Ma vivo, respiro, rido, parlo, penso, cammino. Sono presente dove alcune vorrebbero che io perissi all’istante. E nel lavoro ho trovato altre donne, egualmente competitive, che avrebbero fatto di tutto per scavarmi la fossa, e ci sono quelle che se non possono convincerti a farti da parte, giacché si sentono discriminate dalla tua sola presenza, allora ti massacrano di sensi di colpa, la vergogna, e ti inibiscono perché tu sei come sei. Come agisci sbagli. Qualunque cosa dici sbagli.
D’altronde non fai squadra comune e fare squadra per loro significa riconoscersi in un patto di genere tra persone con le quali, sinceramente, non ho niente da condividere. I patti li fai con persone che ti sono affini e non con quelle che ti vogliono al proprio fianco per addomesticarti e indurti a rispettare le loro regole. Sono quelle che ti impongono dogmi, immaginando tu debba essere felice di essere come loro, e ancora chiedo: ma, se dite che ogni donna deve essere libera di scegliere, perché l’unica libertà che ritenete tale è solo quella che vi somiglia?
E non vorrei parlare per stereotipi sessisti, perché so che su questo poi si orienta una generalizzazione, ma questo è il mio vissuto. Io nella vita ho subito angherie soprattutto dalle donne. Non dagli uomini. Nessuno può convincermi a ritenere quelle donne vittime. Sono vittimiste. Sempre a piangere per qualcosa che non hanno ottenuto e la colpa è mia, di altre, o altri. Se solo fossero un po’ più disponibili col mondo, in ascolto, disponibili a convivere con le diversità. Se solo non reagissero con quell’atteggiamento da maestrine moraliste che si ergono su un piedistallo per spiegare alle altre come devono vivere.
Figurati che avevo pensato che il femminismo fosse solo questo. Una trappola mortale. Poi ho letto il post con la traduzione del discorso di Amanda Palmer, mi sono fermata sul blog e ho scoperto che il femminismo può essere anche altro. Così mi sono resa conto che esiste un mondo in cui c’è chi lotta affinché anche le persone come me non siano giudicate. Ho scoperto di essere più femminista io, forse, di quanto non lo sono tutte quelle che ho incontrato in tutta la mia vita. Perciò racconto qui la mia storia perché credo che riguardi tante donne che nel tempo mi hanno detto, sbuffando, che di certe imposizioni morali non ne potevano più, a maggior ragione perché arrivavano – per il nostro bene – da altre donne che svolgono la manutenzione degli impedimenti che un tempo ci venivano imposti dal patriarcato.
In fondo sono rimaste ferme, lì, a contemplare paurosamente il futuro senza sapere come arrivarci, e dopo aver parlato di liberazione dei corpi, di libere scelte, di obiettivi vari, belli e condivisibili, ora ci dicono che però bisogna agire – liberamente – come vogliono loro e tornano a normare le nostre esistenze provando a farci vergognare di esistere. Ricordo che da piccola, quando mettevo la minigonna erano i ragazzi, alcuni, a dirmi che ero una troia, poi, in mille modi, con mille eufemismi e metafore, esercizi retorici e menzogne, me lo hanno detto le donne. Sapete che c’è? Che io ringrazio quelle che hanno lottato affinché io possa indossare una minigonna avendo anche il diritto di rompere la faccia a chi tenta di violentarmi, dopodiché il mio debito di gratitudine è saldato. Finisce lì. Io sono libera. Libera di essere come cazzo mi pare.
Ps: è una storia vera. Grazie a chi me l’ha raccontata. Ogni riferimento a cose, fatti e persone, è puramente casuale.
—>>>Sintetizzando la storia che questa donna mi veniva in mente il diktat morale lanciato da certun* online: “apri i libri e non le gambe”. E sono tante quelle che dicono che sono stanche di sentirsi dire quel che devono aprire o chiudere. Apriamo quello che ci pare, senza vincoli morali.
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L’ha ribloggato su Fiore Avvelenatoe ha commentato:
Questo post è nello spirito del mio blog, quindi rebloggo volentieri!