Antiautoritarismo, Autodeterminazione, Precarietà, R-Esistenze, Storie, Violenza

Trans, sex worker, discriminata dalle femministe radicali

Sex-Work-Is-Not-Trafficking

Trans, trentottenne, sopravvissuta a discriminazioni, violenze, pregiudizi. Sono andata via di casa all’età di 19 anni. Con i lividi ancora in faccia – il mio souvenir familiare dal mio luogo d’origine – intrattenevo regolari scambi di tecniche di sopravvivenza con i senzatetto che dormivano alla stazione. Uno mi disse, “i” trans se la fanno dall’altro lato del ponte. Allora passai sopra l’errata denominazione e attraversai poche centinaia di metri per beccare il paradiso in terra per quelle come me. Durante il primo mese di vita di strada ho raccattato botte, il vomito di un vicino di marciapiede ubriaco, una serie infinita di bestemmie incomprensibili da parte di un alcolista russo e un tentativo di stupro da parte di un tizio che non mi voleva pagare.

La vita di strada fu l’unica cosa che per un po’ mi tenne in vita. Ancora non sapevo bene cosa fare. Mettevo in mostra le mie gambe lunghe, ancora rosse di dolorose cerette e con i primi soldi cominciai a seguire le indicazioni delle altre per cambiare aspetto. Il fatto è che certe cose costano e l’assistenza sanitaria non era gratis, per quanto fossimo considerate malatissime. Depilazioni, abiti, ormoni, consigli, visite, con le straniere che arrivavano con delle poppe infinite e io che guardavo ancora il mio petto scarno. Il viso che perdeva ciccia e il mio naso che sembrava ancor più lungo.

Trovavo estremamente strani quei clienti che arrivavano per penetrarci o farsi penetrare e poi si pentivano, si vergognavano, ancora stretti a pregiudizi illogici con la necessità di definire in modo statico la propria sessualità. Però pagavano e non era certo consigliabile fare domande. Ci fu una notte in cui mi caricò un tale che poi mi riempì di botte. Essere trans aiuta, averci una muscolatura e una struttura fisica un po’ meno esile delle donne biologiche, può diventare un bel vantaggio, ma io riuscii a liberarmi grazie ai tacchi a spillo. Col sangue in faccia arrivai ad un pronto soccorso e l’infermiera disse che non ci capiva, quelle come me, a farci picchiare da clienti ubriachi, che mitigano il senso di vergogna con i pugni all’oggetto di quel perverso desiderio, e chiesi se lei si fosse trovata mai a dover vergognarsi del proprio aspetto, se qualcheduno le aveva impedito di fare il suo lavoro a causa della sua identità di genere. Rispose no, naturalmente, e allora mi dedicò un mite sorriso solidale per poi lasciarmi in balìa di un dottorino rozzo che medicò la mia ferita con la stessa cura che avrebbe dedicato ad un appestata.

Manifestazione di trans activist e donne contro la violenza alle sex workers
Manifestazione di trans activist e donne contro la violenza sulle sex workers

Quando andai via di casa, senza aver alcuna alternativa, fuggendo da una realtà di paese, con genitori che si vergognavano di me e con i bulli che fin da piccolo mi avevano inseguito per le vie a suon di sputi e bastonate, non immaginavo certo che comunque avrei dovuto usare il corpo che in parte disprezzavo per diventare quello che volevo. Quando la mia esperienza fu più solida riuscii a giostrarmi meglio, a guadagnare, a procurarmi un tetto e ad avere perfino qualche tenera storia d’amore, ma ancora le mie prospettive restavano precarie.

Attorno a me il disastro. La mia collega stanca che poi si suicidò, quell’altra che migrò al nord e non ne seppi più nulla, un’altra che fu picchiata così tanto da non poter più muovere bene la bocca. Diceva che il problema era che non poteva far pompini e poi rideva, perché in certe circostanze non si può fare a meno che ridere di se’ e andare avanti. A me andò un po’ meglio, per quanto fosse veramente difficile incontrare un po’ di solidarietà. Nella città che mi ero scelta per abitarci le donne che parlavano di altre donne ci guardavano, quelle come me, come fossimo corpi estranei, quasi che ci piacesse il destino che ci eravamo scelte. C’erano quelle che dicevano che volevamo infiltrarci nel movimento delle donne, quelle altre che ci chiamavano “travestiti” come avrebbe fatto qualunque transofobo reazionario, poi quelle che ogni volta che si parlava di diritti delle prostitute, incluse quelle come me, parlavano di donne vittime, e c’erano, di certo, ma poi c’eravamo noi e c’erano anche quelle che sceglievano di fare quel mestiere perché era un modo come un altro per guadagnare e campare.

Io sono tra quelle che non hanno precisamente scelto, e dunque ammetto, si, che ci sono persone sfruttate, ma quando alcune cominciarono a parlare di diritti, contratti regolari, regolarizzazione, passai subito dalla parte di chi iniziò quella lotta perché a quel punto ero io a determinare la mia vita, il mio percorso e volevo dirigerlo verso la riaffermazione e la rivendicazione di quel che avevo fatto e stavo già facendo. A parlare con certe femministe reazionarie però sembrava che le trans non esistessero. Puttane erano solo donne, secondo loro: biologicamente donne e noi non c’eravamo. Come se quel lavoro facesse parte del nostro abituale percorso di risoluzione delle nostre perversioni. Transofobe, fino in fondo, negavano che la precarietà va vinta acquisendo diritti nel lavoro e non negando il lavoro in quanto tale.

Facevano poi una grande confusione tra puttane e altre puttane. Dicevano che quelle come me erano infiltrate tra le donne per far credere loro che il sex working potesse essere una scelta. Essere trans per loro era un dettaglio. Conservavamo, a loro parere, le cattive qualità degli uomini e dagli uomini, tutti, loro dicevano di voler difendere le donne. La mia, nostra, presenza le disorientava, non trovavano risposta e quando io chiedevo che mi trovassero un lavoro alternativo allora tacevano e rimuovevano costantemente quel pezzo di verità difficile da risolvere.

Non so se con altre scelte avrei optato per i pompini a pagamento, di certo però alle persone trans non vengono spalancate le porte del mondo del lavoro e allora se voglio mangiare è quel pompino a pagamento che mi porterà vantaggi. Farmi ottenere garanzie, diritti, una pensione, sicurezza, assistenza sanitaria, è l’unica strada per farci stare meglio. Oggi sono piuttosto serena, sono sopravvissuta alla mia vita complicata, faccio parte di un collettivo di sex workers in una zona del Sud Carolina. Con la paura che le polizie arrivino a crearci problemi e le femministe a sputarci addosso. Viviamo così. E così ve la racconto.

Ps: storia tratta da un forum di/per transgender. E’ un intervento, tradotto non letteralmente, risalente al 2011.

Leggi anche:

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Le storie di sex working:

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