Ancora un altro racconto di maternità. Si aggiunge alle altre, indispensabili, narrazioni altrimenti rimosse. Un abbraccio alla narratrice e buona lettura!
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La maternità, per me, è ed è stata soprattutto corpo: corpo che ha vomitato, si è dilatato e fatto capiente durante le gravidanze, seni che si sono gonfiati, ossa del bacino che si sono spostate in un processo biologico di adattamento tanto meraviglioso quanto feroce, vescica sempre piena, intestino lento e affaticato. Mi ha detto molto di me, il mio corpo, mentre mutava per dare la vita. Poi, durante i parti, il mio è stato corpo lacerato e ferito, sanguinante, consegnato nelle mani di ostetriche sbrigative e ginecologi annoiati.
Ho subito clisteri, privazione di acqua per trentasei ore consecutive, rottura meccanica del sacco amniotico, dita e mani infilate dentro la vagina durante le contrazioni, male, un male cane tanto da svenire tra una contrazione e l’altra, chiedendo disperatamente di potermi mettere a carponi perché sentivo che quella era, per me, la posizione migliore per alleviare le fitte lancinanti e per spingere meglio. Mi è stato detto “signora, si dia contegno, solo i cani partoriscono così”. E poi la mia cervice si è dilatata al massimo e i miei figli, uscendo, hanno lacerato i tessuti, sconquassato la vagina, dilaniato i muscoli del perineo. Non so quanti punti mi abbiano messo, non ho mai voluto sapere, ciò che ho sentito più forte è stato, entrambe le volte, la mutilazione fisica (seppur temporanea), un trauma potente, mortificante, una violazione della mia integrità fisica.
Nel momento in cui – così dicono – la femminilità realizza se stessa, io mi sono sentita solo carne violata e ferita. Non ho odiato i miei figli, ma ho odiato il mio corpo. Per capire che l’ , che l’amore è anche sutura, ho dovuto impiegare molti anni. Dopo il primo parto non ho fatto l’amore per sedici mesi: ho dovuto prima far pace con una fica che sentivo profanata e umiliata. E poi le emorroidi, le lochiazioni post-parto, le contrazioni dell’utero che deve tornare alle sue abituali dimensioni, le flebo attaccate, la camicia da notte lurida di liquido amniotico, merda, sangue, urina e vomito. Poi è arrivato il latte, le tette come pietre, gli ingorghi mammari, le infiammazioni dei dotti, i capezzoli letteralmente rotti.
Ho allattato la secondogenita a latte e sangue per tre mesi: le ragadi non guarivano mai, le abrasioni erano sempre vive, ogni volta che la bambina si attaccava (anche 8-10 volte al giorno) urlavo e piangevo di dolore, lei continuava a bere sangue e latte. La puzza del latte materno, i vestiti sempre sporchi, i capelli impiastricciati di rigurgiti e bave. Non è niente, dicono. Passa. E torni a casa con gli ormoni impazziti, il corpo ferito e il cuore nero: sono uscita dalla clinica e lì, sotto un sole cocente di luglio, ho avuto la mia prima crisi di panico. Stavo così male che sono stata tentata – ed ero spietatamente lucida – di buttarmi sotto una macchina.
A casa è stato anche peggio. Non volevo occuparmi di quel figlio, aveva una faccia aliena, bisogni prepotenti, non dormiva mai. Vivevo nel terrore di rimanere sola con lui, ma non sopportavo neanche nessuno vicino. Avevo pensieri di morte: se non eravamo capaci di vivere insieme, saremmo morti insieme. Non sapevo allora, appunto, che esistono le suture, quelle quotidiane, il lavoro lento e faticoso dell’amore, e che l’amore materno non è scontato, non è dato, non è trascritto nel patrimonio genetico femminile. Anche l’amore, talvolta, è qualcosa che ti devi conquistare, una possibilità che devi darti.
Così sono ripartita dal corpo, cominciando a capire che la maternità aveva fatto mutare il mio corpo radicalmente e per sempre: quel corpo tagliato e dilatato non sarebbe stato più solo mio ma sarebbe stato anche di mio figlio, che negli anni a venire lo avrebbe usato e trafugato per nutrirsi, per consolarsi, per dormire, per giocare, per sfogarsi, per imparare a picchiare e baciare. Senza il mio corpo mio figlio non sarebbe cresciuto. Così, e lui aveva già 4-5 mesi, cominciai a trascorrere le mattinate io e lui nudi a letto, lasciando che lui scoprisse e conoscesse il mio corpo, le sue carezze hanno avviato l’enorme operazione di sutura delle mie e delle sue ferite interiori, io sono restata in ascolto e mi sono innamorata.
Non solo di lui, ma (con il tempo, negli anni) del mio corpo traumatizzato ma vivo, vibrante. Ne valeva la pena, ne è valsa la pena per me perlomeno. Ed è un’esperienza che mi ha insegnato che il rapporto tra una madre e un figlio è una relazione, un percorso, un cammino, un intreccio: non c’è solo l’amore, e l’amore che c’è è un amore a modo tuo, l’amore che sai e puoi dare, quello che conta per te (solo per te, e nessun altro) ma ci sono anche il rifiuto, il rancore, il risentimento, la noia, la frustrazione, il terrore, la rabbia, la voglia di fuggire, l’insofferenza, la solitudine. Perché io e te siamo in relazione, figlio mio, e non esistono relazioni che non siano ambigue, complesse, fragili, dolenti. Ora lo so, ora c’è più chiarore nelle mia vita di madre, ma mi tengo ben strette le mie ombre, anche quelle più malvagie e ambivalenti: credo siano state loro ad aver reso le relazioni con i miei figli degne di essere vissute.
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Parlavo con mia madre ultimamente, ci sentiamo spesso da quando vivo lontana. Farneticavo come al solito dicendole di aver deciso che appena avrei avuto i soldi mi sarei rifatta le tette.
E mia madre mi ha detto una cosa bellissima, che lei le sue tette non le rifarebbe mai, che ci ha fatto delle cose bellissime ❤
Grande pezzo. Complimenti alla narratrice.