Francesca si sforzava, tutti i giorni, di certificare l’esser vittima di ogni donna, conoscente, estranea, con estese accuse a tutto il genere maschile, perché guai a mettere in discussione il fatto che le donne sono vittime, altrimenti fornisci una scusante a quelli che geneticamente sembrerebbero esser fatti per diventare carnefici.
Svolgeva un compito complesso, a modo suo eroico, non fosse per il fatto che sulla storia delle vittime femmine era venuto fuori un gran commercio. La vittima vende, è patrimonio del capitalismo, sollecita e legittima nuovamente il ruolo dei patriarchi (buoni) che rimestano nella memoria del cavalierato per recuperare un ruolo di genere che si sperava estinto, di fatto non c’è prodotto più prodotto che si venda meglio di una vittima, un volto con un occhio nero, uno spot con un uomo che dice forte e con aria severa “NO” e accanto a lui una povera fanciulla da salvare. Quello che un tempo era un riconoscimento per donne alle quali veniva negato il diritto di dirsi vittime di violenze oggi diventa l’attribuzione di uno status che assolve tutte e a volte fornisce una scusante alla foga forcaiola di certune.
Non fai neppure in tempo a nominare una accusa in direzione di qualcuno che già è condannato, senza neppure aver subito un processo, e tutto ciò, ovviamente, in nome delle vittime. La vittima per antonomasia, dunque, deve essere innanzitutto donna, se poi è anche madre abbiamo messo a punto una retorica che non può essere mai messa in discussione. E’ una struttura solida, per quanto illogica, quella che vuole assegnare l’innocenza a qualcuno in base al genere a prescindere da prove e discussioni che vanno fatte caso per caso. Su questo non puoi opporre alcuna critica. Non si può fare. Altrimenti, avrebbe detto Francesca, avviene la “colpevolizzazione della vittima”. Perché avvenga la colpevolizzazione della vittima bisogna però che quella sia riconosciuta in quanto tale. Servono prove e non affermazioni elargite per fede incrollabile nella bontà “naturale” del genere femminile. Capite che in questo modo altrimenti si realizza un pregiudizio di genere, con relativa complicità nei confronti di alcune che possono essere carnefici.
Ebbene si, perché Francesca potrebbe dire anche che se non si discute delle donne in quanto vittime, senza se e senza ma, se non ne parli in un certo modo allora stai dalla parte dei cattivi. Dunque ella ha già deciso che sono cattivi. Lo ha fatto dall’alto della sua esperienza e, anzi, è andata perfino oltre: ha deciso che i carnefici corrispondono a quelli che si esprimono con opinioni in cui si mette in discussione questa sacralità della vittima.
La vittima è, esiste, è indiscutibile. Ogni dubbio su questo ti pone ovviamente dalla parte del torto.
Allora un bel giorno Francesca si trovò costretta a capovolgere la sua prospettiva perché la “vittima”, ovvero quella che aveva realizzato di essere vittima di una violenza, era una donna abusata da un’altra donna. La tizia provò a dirlo, lo raccontò e lo disse senza negare dettagli e particolari e però Francesca disse che non poteva essere vero, le donne non fanno di queste cose, sono fantastiche, meravigliose, tutte quante. Non trovi da parte loro alcun intento coercitivo, alcuna paranoica ossessione, alcuna esternazione rabbiosa, alcun meccanismo violento. Non trovi nulla di cattivo in loro, giammai, perché le donne sono vittime sempre e comunque ma possono essere vittime solo di un uomo, giammai di un’altra donna.
La tizia che tentò di denunciare l’accaduto venne colpevolizzata, le fu detto che probabilmente dipendeva da suoi cattivi comportamenti, aveva provocato, perciò meritava tutto quello che l’altra le faceva. Francesca disse che una cosa così si può risolvere perché tra donne è chiaro che ci si capisce. Non c’è accanimento. Non c’è alcuna volontà di danneggiare l’altra. Non c’è il vizio oscuro, il male, la spinta a ferire, ripetutamente, l’altra. Noi donne, così disse Francesca, non siamo fatte così. Siamo migliori. Noi ci arrabbiamo per le ragioni giuste. Noi svolgiamo critiche severe ma giammai faremmo violenza ad un’altra persona. Noi siamo la parte buona e positiva della società. Noi siamo quelle che renderanno migliore la società.
La tizia che denunciava di aver subito violenza disse più volte che a causa della persecuzione subita aveva paura ad uscire di casa, temeva di vedere la sua abusante davanti al posto di lavoro, temeva fosse messa a rischio la serenità e l’incolumità delle persone a lei care. Disse che più di una volta questa signora aveva chiamato per parlare con figli, amici, colleghi di lavoro e raccontare cose perfide con l’intento di rendere difficile la vita dell’altra. Aveva tra l’altro minacciato di aspettarla un giorno per metterle le mani addosso, perché pensava, non si capisce perché, che l’altra le avesse fatto un torto giacché un giorno ad un colloquio di lavoro fu scelta al posto suo. E tutto ciò anche se la donna che fu assunta neppure sapeva dell’esistenza dell’altra.
Di tutto questo la “vittima” della persecuzione seppe man mano che tentò di capire il perché di tanta violenza. Perché capire dovrebbe essere la chiave per risolvere un problema anche se a volte la sola comprensione delle ragioni dell’altra non servono a niente. Se una persona è violenta lo è e basta e nella sua testa continuerà a coltivare paranoie e ossessioni e a immaginare altre possibili sciocchezze che la giustifichino mentre fa quello che fa.
Al culmine di questa vicenda la tizia mise online la foto e l’indirizzo, nome e cognome e tutto, della “vittima”, lo scopo era ancora quello di stalkerizzarla e dunque lei pensò di rivolgersi a Francesca che tanto diceva di sapere a proposito di vittime di violenza. Francesca, appunto, non reputò il fatto degno di nota. Piuttosto fece un ritratto psicologico e gratuito della “vittima” che aveva raccontato le sue sofferenze e disse che forse avrebbe dovuto essere un po’ più sicura di se’, avrebbe dovuto reagire meglio e soprattutto mai prendersela così tanto perché le “vere” violenze sono altre.
“Io tutti i giorni ho a che fare con donne che arrivano ferite e massacrate” – disse – “i loro mariti le fanno a pezzi e nessuno le ascolta“. Così l’altra, la “vittima” di violenza non/maschile, rispose che certamente le dispiaceva, ne era consapevole, ma dunque nel suo caso cosa avrebbe dovuto fare? Continuare a sopportare?
“Vada e la denunci, se crede…” – le suggerì distrattamente quella, senza empatia né interesse. E la trattò come si tratta una bambina capricciosa quando ti dice che la luna ha un colore diverso mentre tu stai tentando di riassestare il giusto moto della terra. C’erano altre emergenze, altre priorità “e noi siamo in poche a pensare a queste cose e non possiamo occuparci di tutto“.
La “vittima” comprese che non c’era spazio per se’, non avrebbe trovato alcuna comprensione. Il punto di vista dell’interlocutrice era un altro. Già dire che aveva subito violenza da una donna aveva predisposto Francesca al non ascolto, perché l’empatia, forse, le si attivava in forma selettiva. Non guardava alla violenza in quanto tale ma solo alla violenza proveniente da un solo sesso.
La “vittima” infine dovette traslocare, cambiò numero di telefono, uccise il proprio account sui social network perché la tizia in questione la perseguitava anche lì, si isolò e cambiò totalmente abitudini. Conservò solo il posto di lavoro con richiesta di trasferimento al piano in cui non accedeva il pubblico e il timore che l’altra, in ogni caso, potesse attenderla all’uscita. Consegnò la propria denuncia nella speranza che qualcuno la raccogliesse. Fu prima archiviata e poi ripresa in mano da una giustizia lenta e faticosa che comunque guarda a queste cose come fossero superflue. Ad oggi la “vittima” non è ancora stata riconosciuta tale, la sua carnefice continua a fare quel che vuole, e pare si sia stancata un po’ solo perché ha trovato un piccolo lavoro e un amore. Ed ecco come vanno, a volte, le cose quando si parla di “vittime” che non rientrano nella percezione nazional/popolare.
Ps: E’ una storia di (quasi) invenzione. Ringrazio chi me l’ha raccontata. Ogni riferimento a cose, fatti e persone è puramente causale. Una riflessione acclusa: in una società patriarcale, paternalista, tendenzialmente maschilista, parlare di violenza delle donne non fa bene perché altrimenti l’omo non può ergersi a difendere l’altra e farle da tutore. Diventa tutto un po’ più complicato. No?
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