La vittima è l’eroe del nostro tempo, dice Daniele Giglioli nel suo saggio a proposito del quale potete ascoltare cose belle nella ultima puntata di Fahrenheit (Critica della vittima – edito Nottetempo). Il tempo attuale è quello in cui si pratica la concorrenza delle vittime. E’ la contesa del primato della sofferenza. E io non posso non pensare all’eterna diatriba sulla violenza sulle donne, ogni tanto provocata in malafede, tra quell* che supportano un modello paternalista che ha bisogno della vittima vittimizzata a legittimazione dei tutori e quell* che in realtà indagano non solo modelli comunicativi ma quanto e come la vittimizzazione dei soggetti in realtà aiuti poco quegli stessi soggetti.
Provo, non solo con le analisi che si riferiscono alla comunicazione, alle campagne di sensibilizzazione, ma anche con le mie storie, a decostruire questa faccenda della “vittima” e della sua funzionale declinazione in una maniera “utile” a chi, per l’appunto, non sa uscire dalla dicotomia vittima/carnefice per realizzare una rivendicazione. So che non è semplicissimo da comprendere ma giuro che più spesso chi finge di non capire o attribuisce addirittura a questo ragionamento l’intenzione di banalizzare, sminuire dei fenomeni, è solo una persona che ha davvero difficoltà a smarcarsi dal ruolo della vittima senza il quale non è assolutamente in grado di gestire altrimenti una lotta rivendicativa.
Vi racconto una storia semplice dalla quale si possono trarre utili paradigmi applicabili a qualunque altra situazione in cui i soggetti chiave sono quelli che rivendicano e quelli che concedono, decidono, stabiliscono eventuali pause di liberazione. Perché di pause si parla, con delega ad altre persone di quei ruoli e di quelle responsabilità che prima dovevi gestire tu.
Sono cresciuta accanto una famiglia “normale”. Lui, lei, quattro figli di cui due femmine e due maschi. Lei viveva per quella famiglia. Non aveva tempo neppure per farsi uno shampoo. Aveva a carico anche la madre e la suocera, entrambe anziane. Divideva, talvolta, i ruoli di cura con le figlie. Una delle due era ribelle e perciò prendeva legnate. Ma le legnate le prendeva anche uno dei due figli maschi perché non voleva seguire le impronte paterne. Ad ogni modo questa donna poteva prendersi una pausa soltanto in punto di morte. Era sgravata dai doveri solo se a sua volta vittima. Una malattia era sufficiente a chiamare in mobilitazione tutta la famiglia. Lui assolveva ad alcune piccole mansioni, i figli si redistribuivano i carichi familiari, lei viveva la sua convalescenza, era in cura, era “tutelata” finché di “tutela” aveva bisogno. Dopodichè tutto ricominciava da capo. Nessuno le concedeva sconti. Lo stesso valeva per la figlia grande. Ricordo che l’unica ragione per cui le era concesso di non aiutare la mamma era quello di fare i compiti, e già era un progresso in termini di mentalità, e poi ottenne attenzione un giorno in cui scivolò e quasi si frantumò una spalla, mezza faccia e un braccio. Allora le fu concesso perfino di ricevere in visita le amiche e dare un piccolo party per stare meglio. Ovviamente i lavori per quel party spettavano alla madre e alla sorella minore. Di volta in volta in quella famiglia i ruoli si ricalibravano sulla base di un dato preciso: potevi fare la voce grossa e rivendicare spazio solo se eri vittima/malata, inabile al lavoro di cura. Diversamente, se ti comportavi come la sorellina minore che sbuffava e non aveva voglia di fare le cose o diceva “ma perché non si alza e lo fa lui?” eri una ribelle da ammansire, addomesticare e in quel caso l’autorità genitoriale era perfino plausibile per “calmarle i bollenti spiriti“.
Riuscite a trarre da questo delle analogie? Ancora no? Provo a spiegare meglio: quando le femministe iniziarono la propria lotta andavano in piazza senza mimare scene di vittimismo pietoso. Quelle donne erano incazzate, affrontavano i tutori, si beccavano la galera per un aborto, combattevano, non pietivano attenzioni dalle istituzioni, non si lagnavano ogni giorno dei lividi ricevuti, perché sapevano che uno dei punti scardinanti in relazione alla rivendicazione prodotta era proprio il fatto di farla emergere a partire da chi si regalava licenza di ribellione.
Quello era un movimento che rifiutava ogni dicotomia. Santa Vs Ribelle non esisteva affatto, con tutti i meccanismi perversi che la cultura dominante metteva in circolo per realizzare un regime di sorveglianza della cura e dei corpi delle donne operato dalle stesse donne non meno responsabili di quel che accadeva.
E oggi? Quello che si vede è per lo più un discorso perfettamente funzionale alla cultura patriarcale, inserito in meccanismi in cui quel vittimismo diventa l’unica strada possibile per risalire la catena degli abusi fino a diventarne artefici, responsabili, fino a diventare le tiranne delle buone intenzioni. In quanto vittima posso dirti di tacere, smettere, finire. In quanto vittima mi spetta attenzione, spazio, vita. In quanto vittima… in quanto santa… in quanto donna… Perché oggi la parola donna corrisponde a santa/vittima e dunque la donna, come figura retorica, è diventata quella che pratica vittimismo perché ritiene sia l’unico modo per rivendicare un diritto.
Poi c’è il movimento delle donne che a prescindere dalle esperienze che hanno vissuto pretendono di ottenere diritti e non perché stanno male, ché i diritti non hai bisogno di morire per rivendicarli. Una tale pratica rivendicativa agisce solo entro il ridotto schema in cui ancora regna la cultura patriarcale. Sei ancora subordinata perché hai bisogno di mostrare i lividi per essere sgravata dai doveri, dalle responsabilità che la società ti impone. Di contro, se voi foste libere e autodeterminate, se non pietite alcunché, se scendete in piazza a testa alta, col cavolo che vi trattano con rispetto. Anzi. Se vi trovate a pochi passi da un tutore è quasi certo che vi manganella.
Alcune di voi sono ancora incastrate in quelle dinamiche minoritarie. Fingete orgoglio ma in realtà avete bisogno di mostrarvi livide o cadaveri, comunque vittime, per gestire un discorso alla pari. E se il vittimismo è l’unico modo che avete trovato per tirarvi su di un gradino e guardare in faccia le persone che ritenete vi abbiano messe in minoranza, quand’è che tornerete a essere persone autodeterminate e basta? Quando smetterete di essere malate/donne/deboli/martiri/minorate per ottenere l’attenzione di chi non vi considera?
Sarà per questo che, avendo una grande esperienza di lotta e di decostruzione dei miti utilizzati nelle pratiche femministe quando si parla di violenza sulle donne, apprezzo molto di più una che a muso duro rivendica quello che vuole senza dover mostrare i lividi piuttosto che una che è talmente fragile, debole, da dover legittimare il patriarcato buono, i fantastici tutori, da suscitare commozione, da diventare un caso umano, per ottenere un minimo di rispetto e considerazione.
C’è una dignità precisa nel non voler essere vittime ed è quella di non offrire gratis pornografia emotiva ad una struttura sociale che esige questi feticci per far scaricare la coscienza e far sentire più buoni alcuni che diversamente non potrebbero dirsi tali.Una cultura libertaria, un femminismo autodeterminato, non gode nel mostrarsi leso, si smarca da quell’angolo di discussione entro cui ti obbliga la cultura della dominazione, della sopraffazione, dell’oppressione, la stessa cultura che ti giudica violenta se resisti, esisti, respiri, senza aver confessato di essere stata almeno un paio di volte stuprata, o sodomizzata, o picchiata, o abusata, o chissà cosa.
Come spiegarvi che lasciare che il discorso sulla violenza si realizzi entro quel preciso schema sociale in cui salvare la fanciulla indifesa diventa catarsi, quota morale, medaglia etica per il salvatore, in realtà, non cambia una virgola della propria impostazione? Perché se così non fosse, ditemi, com’è che in questi giorni, ancora, si discute di nomi che dovrebbero stare in un fantomatico dipartimento alle pari opportunità che sposano appieno quanto vi dicevo? Perché l’unica ragione per cui si combatte la violenza domestica è perché le donne sono risorse e dunque bisogna rimetterle in condizione di svolgere ancora il proprio ruolo di cura?
Il mio suggerimento? Smettete i lividi, basta regalare pornografia emotiva a paternalisti e patriarchi (buoni) che sui vostri lividi e sull’illusione di essere migliori ci si rifanno di seghe da mattina a sera. Basta supportare illogiche strumentalizzazioni messe in atto da donne che in realtà approcciano quella cultura in termini borghesi, in quanto che la loro liberazione è rappresentata dalla badante a costo basso che arriva da altre terre. Basta legittimare chi declina l’antiviolenza in senso securitario, repressivo, vago e autoritario e poi non ha alcun rispetto della vostra autodeterminazione quando siete lesbiche o quando volete abortire.
Sapete che c’è? Non abbiamo bisogno di essere morte per rivendicare diritti. Non serve elencarvi i lividi per essere viste in quanto persone. Semplicemente lo siamo. Lo siamo e basta. Essere alla pari significa considerarsi tali in origine. E ora spostatevi e lasciate che prendiamo spazio nella società, e ci vedrete lì senza piagnistei, senza vittimismi, senza moralismi, subito pronte ad assumerci le nostre responsabilità. Voglio dire: se il vittimismo diventa funzionale a logiche istituzional/patriarcali quando non hai spazio pubblico, figuriamoci quanto possa diventarlo quando invece un minimo di spazio ce l’hai…
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