La narrazione sulla violenza sulle donne è autoritaria. E’ finalizzata alla repressione e non a trovare modalità di disinnesco. Individua peraltro solo una attrice degli eventi o meglio attribuisce ruoli a tutti gli attori e le attrici in maniera rigida e senza che ciascuno abbia possibilità di raccontarsi autonomamente.
Tutti gli attori e le attrici delle situazioni di violenza vivono e respirano della stessa vita e stessa aria e ciascuno/a di loro arriva alle situazioni di violenza non per caso, di sicuro, ma per varie ragioni tra le quali l’influenza di una cultura che ti fornisce un’arma dopo l’altra per poi importi di non esplodere, farti dominare o dominare a tua volta, di non ferire o farti ferire. Che tu sia uomo o donna, considerando che non esistono solo due generi, comunque la formazione, la cultura, la gestione di ogni cosa fa di te una bomba ad orologeria e l’unica soluzione poi proposta è la repressione. Invece in molti casi bisognerebbe solo disinnescare.
Disinnescare significa prevenire. E per prevenire bisogna intervenire anche su quella narrazione che non lascia spazio alcuno a molte vittime. Perché quella imposta è una narrazione adulta, genitoriale in senso autoritario rispetto alla quale anche le vittime devono dichiarare perfetta adesione.
Quella che racconto io è la storia di com’era ieri rivista con le consapevolezze di oggi. Spiego le mie azioni assumendomene la responsabilità nel bene e nel male.
Chi legge è spesso qualcuno che la violenza l’ha superata o che immagina di dover solo soccorrere ledendo il principio stesso di autodeterminazione di chi vive una situazione di violenza. Chi legge parla o vorrebbe leggere di violenza attribuendo a ciò che sono oggi, per le consapevolezze maturate, per l’aver valutato errori e circostanze, un significato/linguaggio che non è e non può essere il mio. Diventano cioè genitori e spesso sono genitori autoritari, patriarchi o madri severissime che finiscono per sostituirsi alla voce di tante figlie e figli che quella situazione la vivono davvero. E’ come dire “lascia fare a me ché tu sei piccolo/a” oppure “ci penso io che so come si fa“.
Ma il punto è che non funziona. Le pagine di cronaca sono piene di vite distrutte, di uomini e di donne e famiglie intere, perché nessuno ha valutato per esempio il fatto che la coercizione non funziona. Tante ragazze che passavano da una prigione all’altra e che in assenza di autonomia sgattaiolavano nel cuore della notte per consegnarsi in mano al proprio partner con il quale la partita non era ancora chiusa. Tante che a parole dicono di odiarlo e poi lo amano e lo cercano e ci fanno l’amore al chiuso di stanze proibite, in macchina, in campagna, al buio, di nascosto.
Chi legge o si racconta dovrebbe leggere e raccontare per come era ieri, proprio quando viveva la situazione di violenza. Se vuoi sapere come intervenire per disinnescare, cosa che si può fare in qualunque momento, devi ripercorrere quelle situazioni e farlo in modo chiaro e senza sconti per nessuno.
Bisogna tornare figlie, nella narrazione, e produrre quel moto di ribellione che è adolescenziale ma anche giustamente antiautoritario e impone il proprio punto di vista per partecipare alla elaborazione delle soluzioni.
Lo so che siamo in un’epoca in cui il diritto degli studenti, per esempio, di partecipare ai consigli, alle decisioni perfino amministrative nelle scuole, è stato quasi del tutto violato. E’ il tempo in cui l’autoritarismo permea ogni strato sociale e ogni situazione. Ma ciò non significa che si possa tollerare che anche il discorso pubblico sulla violenza sulle donne possa essere alla mercè di chi ne fa una ragione da shock economy e di chi assesta una violazione dopo l’altra negando perfino alle vittime di poter dire la propria opinione al riguardo.
Tornare figlie significa spiegare perché le soluzioni imposte ledono l’autonomia di ciascuna/o e non tengono conto di tutti gli attori e le attrici in campo. Significa mettersi ancora nella prospettiva di chi vuole conquistare pezzi di autonomia, senza rassegnazione, con spirito di rivolta necessario. Significa che non si danno “colpe” ma si cercano risposte e responsabilità, incluso le proprie.
Perché il punto è, tra gli altri, che puoi dirglielo quanto ti pare ad una ragazza, donna, che vive una situazione di co-dipendenza, che deve andare, fuggire, eccetera, ma se quella ragazza/donna non ti sta a sentire e si sentirà limitata nella propria autonomia, sarà perduta per sempre e morirà. E morirà non solo per responsabilità di chi materialmente la uccide ma per responsabilità sociali molto più ampie che vanno affrontate, viste e se possibile risolte. Morirà lei, morirà il suo assassino. Moriranno le famiglie di entrambi.
Dalle narrazioni reali tu capisci anche cosa devi fare per dare una mano a chi vive in situazioni di violenza. E dalla mia si capisce che a me serviva per esempio un disinnesco e non una forzatura. Il disinnesco è qualcosa che ti libera. La forzatura invece mutila la tua autodeterminazione. Un disinnesco nel mio caso era l’autonomia, casa, reddito, prospettive. In qualche altro caso può esserci anche un supporto psicologico.
E poi andare oltre e dire che la co-dipendenza va spezzata risolvendo anche i motivi per cui lui resta imprigionato nella stessa situazione. Perché se non salvi lui non salvi neppure te. E allora casa, reddito, prospettive, supporto psicologico anche per lui. Ovvero prospettive per entrambi perché se lui non ha prospettive e non le hai neppure tu l’uno si attaccherà all’altro/a come unica ancora di salvezza della propria vita senza la quale non si ha più nulla da perdere. Ed è mia opinione che bisogna offrire a tutti/e “qualcosa da perdere” perché non si abbia voglia di perdere niente. Per me e per il mio ex, questo approccio ha funzionato e l’attenzione anche ai suoi bisogni ha totalmente disinnescato la violenza.
Però non voglio anticipare nulla e altre cose arriveranno continuando a scrivere la mia storia. A presto con altri miei brandelli di carne.
Ps: La prima forma di autodifesa è la conoscenza. Rifiutarsi di sapere non è mai una buona cosa. Condividere i saperi maturati attraverso la propria esperienza è un regalo.
NB: Marina è un personaggio di pura invenzione. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. Nel suo about dice “Vorrei parlare di violenze nella coppia, nelle relazioni, e tentare di riflettere insieme a voi su una cosa che troppo spesso vedo trattare in modo assai banale.